03 -08- 2016

ANALISI. «Le donne curde, da un lato, sono state meno soggette alle politiche di assimilazione degli Stati e, dall’altro, hanno avuto un ulteriore stimolo alla mobilitazione. Nel conflitto con Ankara hanno trovato la possibilità di cambiare la loro condizione, anche nei confronti dei propri uomini» scrive Francesca La Bella

 

Combattenti del Pkk sui monti Qandil (nord Iraq)

Combattenti del Pkk sui monti Qandil (nord Iraq)

di Francesca La Bella

Roma, 2 agosto 2016, Nena News – In un momento in cui l’attivismo del popolo curdo è diventato centrale nel dibattito internazionale, soprattutto in relazione alla lotta contro lo Stato islamico in Iraq e Siria, dovrebbe essere imprescindibile analizzare le radici del coinvolgimento femminile all’interno del movimento curdo e l’impatto di questo fenomeno sulla realtà curda nel suo complesso. Per ragioni di sintesi e a causa di una maggiore disponibilità di fonti, l’analisi si concentrerà sulle radici storiche ed ideologiche del movimento delle donne curde in Turchia e, in particolare, sulla storia dei militanti politiche del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Un attento esame della letteratura in materia evidenzia, infatti, la leadership delle donne curde in Turchia nella creazione di una specifica teoria della liberazione delle donne. Mutuando parte della tradizione socialista, questa teoria ha subito numerose trasformazioni dovute alla compenetrazione tra teoria generale e realtà locale riuscendo a delineare un processo di empowerment femminile dai caratteri peculiari.

Per una corretta comprensione di queste dinamiche è, quindi, necessario guardare alle contingenze storiche e sociali alla base di questa esperienza. All’inizio del secolo scorso, la liberazione delle donne è stata utilizzata come strumento per subordinarle alla nazione turca. I generali turchi si sono appellati alle donne turche formalmente “emancipate” dallo Stato per evidenziare il divario tra modernità turca e sottosviluppo curdo. Quando migliaia di donne curde hanno iniziato ad allargare le fila del PKK e del suo esercito di guerriglia nel 1990, la Turchia ha lanciato una vasta offensiva contro le guerrigliere. Mentre gli uomini venivano etichettati come terroristi, il nazionalismo ufficiale ha ridotto le donne a prostitute. In una prospettiva patriarcale, le donne non potevano essere considerate terroriste e la loro ribellione contro l’indivisibilità della nazione turca doveva essere degradata in termini sessisti.

Parallelamente, gli stessi nazionalisti curdi hanno impedito l’evoluzione di un movimento femminile indipendente. Anche se, nel corso della sua storia, la società curda è stata principalmente dominata da figure maschili, sono presenti diversi esempi di donne che hanno raggiunto posizioni rilevanti all’interno della comunità. Molti autori curdi hanno interpretato questi casi come prova della posizione di rispetto detenuta da donne e come esempi di una lunga tradizione di parità. I nazionalisti curdi hanno contribuito alla diffusione di tali stereotipi per diversi motivi, ma principalmente per sottolineare le comuni radici culturali tra Occidente e società curda e ottenere consenso per il proprio movimento di liberazione nazionale. Con lo sguardo rivolto alla tradizione, i partiti nazionalisti hanno, così, posticipato l’emancipazione femminile, promuovendo il mito di un’ancestrale libertà delle donne curde.

L’azione dello Stato turco e l’attività dei nazionalisti curdi sono state strettamente interconnesse. Lo Stato turco ha adottato una politica aggressiva di assimilazione nei confronti dei curdi e la reazione dei nazionalisti curdi è stata di forte aderenza alle tradizioni. Questo meccanismo di difesa sociale ha rafforzato la sottomissione delle donne trasformandole in simboli dell’identità curda contro il controllo imperialista della Turchia. Le donne, nella quasi totalità analfabete, parlavano curdo a casa perché era l’unica lingua che conoscevano ed hanno, in questo modo, preservato la memoria storica del proprio popolo. A causa di questa condizione, le donne curde, da un lato, sono state meno soggette alle politiche di assimilazione degli Stati e, dall’altro, hanno avuto un ulteriore stimolo alla mobilitazione. Nel conflitto hanno, dunque, trovato la possibilità di cambiare la loro condizione, anche nei confronti dei propri uomini.

In questo senso è necessario sottolineare che, in una società ancora fortemente patriarcale, la condizione delle donne militanti è considerata da molti analisti, diversa rispetto a quella vissuta della popolazione femminile curda nel suo complesso. Gli strumenti dell’emancipazione sono stati il coinvolgimento politico e militare di queste donne. Il PKK ha, dunque, segnato una significativa rottura con il passato, mobilitando attivamente le donne e, allo stesso tempo, il braccio armato del PKK, il ARGK, ha, fin dal principio, reclutato un significativo numero di giovani donne combattenti. Nei campi di addestramento le donne lavoravano e combattevano al fianco e al pari degli uomini, a volte diventando comandanti militari. Benché le donne siano rimaste quasi totalmente assenti nei livelli più alti dell’organizzazione, la loro partecipazione alla lotta ha posto una sfida alla predominanza maschile sia all’interno del Partito sia nella società. Attraverso l’educazione politica costante in cui i militanti sono formati e attraverso la vita in comunità, il PKK ha, così, creato i presupposti per un cambiamento, in primo luogo individuale.

Gli anni successivi al colpo di stato militare del 1980 hanno, però, cambiato anche l’approccio delle donne curde non-militanti rispetto al PKK. La detenzione di migliaia di uomini curdi ha costretto molte donne ad assumere un ruolo più attivo nella famiglia e nella società. Non solo hanno dovuto prendersi cura della loro famiglia, ma sono state obbligate ad imparare come relazionarsi con la burocrazia dei sistemi giudiziari e delle carceri turche In una società in cui la stragrande maggioranza delle giovani donne non aveva un’istruzione superiore ed era forte l’incidenza di matrimoni precoci, unirsi al PKK ha rappresentato, per molte di loro, una concreta alternativa al ruolo tradizionale. Allo stesso tempo, però, il rischio di incorrere in altri tipi di rapporti ineguali e dei ruoli stereotipati era comunque presente. Benché le donne abbiano ricoperto un ruolo fondamentale nella definizione del proprio ruolo nella società, il loro percorso di emancipazione è stato spesso considerato secondario rispetto alla lotta per la liberazione nazionale.

In questa prospettiva alcuni analisti hanno affermato che il femminismo curdo ha svolto un mero ruolo di supporto rispetto al più vasto nazionalismo curdo. In questo senso le donne sarebbero state “autorizzate” a combattere per i propri diritti solo laddove questo processo poteva portare dei benefici per la realizzazione del progetto nazionale curdo. Questo argomento può essere considerato in parte corretto, ma è necessario evidenziare che la partecipazione alla lotta di liberazione nazionale ha, parallelamente, creato il contesto necessario e fornito gli strumenti per un processo di emancipazione e di ridefinizione del ruolo femminile nella società. Nel 1987, consapevoli della gravità di questo problema, le donne curde hanno fondato il YJWK (Unione Patriottica delle donne del Kurdistan). Questo atto è stata la prima dichiarazione di intenti nella prospettiva di un’organizzazione indipendente delle donne. Allo stesso tempo, mentre il numero delle guerrigliere aumentava, lo sviluppo di una organizzazione militare femminile si è resa necessaria.

Nel 1993, per la prima volta, sono state formate unità di sole donne. In questo modo, le donne non erano più sottoposte ad una linea di comando esclusivamente maschile. Tuttavia questo non era sufficiente e tutti questi progressi non hanno permesso di superare completamente la struttura patriarcale. Così il movimento delle donne è stato rinnovato più volte fino alla fondazione della KJB (Consiglio superiore delle donne) nel 2005. In questo modo, le donne del Kurdistan hanno creato la loro organizzazione ombrello. Questo sistema è costituito da quattro componenti fondamentali: il movimento ideologico delle donne, PAJK, il movimento sociale delle donne, YJA, le forze di autodifesa femminili YJA-STAR e l’organizzazione delle giovani donne. Il processo è stato molto lungo e la strada da fare per giungere ad una reale parità anche all’interno dei gruppi militanti non è ancora finita, ma molti passaggi sono stati fatti. La costruzione di gruppi politici e militari esclusivamente femminili, l’istituzione di case delle donne e centri di sostegno contro la violenza di genere, una formazione specifica per donne e uomini sul rifiuto del patriarcato e l’eliminazione della violenza maschilista nelle relazioni sono solo alcuni di questi passaggi. [continua domani..] Nena News

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