Laura Schrader

IL DIRITTO DI ESISTERE

Storie di kurdi e turchi insieme per la libertà.

 

Indice

pag.

Introduzione

7

 

 

1. Una Repubblica fondata sul razzismo   

9

Ahmet Altan e il diritto di essere schiavi     

9

Ismail Besikci e l'onore del popolo turco     

15

La sedicenne Saadet e la tortura strumento di genocidio

20

Harold Pinter e la lingua della montagna     

25

 

 

2. La resistenza

31

Apo Ocalan e la guerriglia del PKK

31

Haluk Gerger e la barbarie in Turchia  

38

 

 

3. Guerra contro le idee     

47

Musa Anter e la strage dei democratici

47

Lo strillone di Nusaybin. Storia tragica di un quotidiano    

53

Yasar Kemal e la cultura imprigionata

59

 

 

4. Il coraggio della pace

69

Tomris Ozden e Eminè Duman: donne contro le armi 

69

Leyla Zana. Due crimini: pace e fratellanza

74

 

 

5. Mafia e terrore di stato

83

Akin Birdal e gli assassini misteriosi

83

Abdullah Catli, storia di un criminale onorato

93

Le vittime senza nome della distruzione dei villaggi

103

 

 

6. I kurdi nel nuovo ordine mondiale

115

Il popolo kurdo e le armi del Pentagono      

115

Il PKK e l’Europa: la grande illusione

126

L'Europa dei diritti e la chiusura di MED TV

136

Il governo dei Lupi grigi e la catastrofe del terremoto

140

La svolta del PKK e la pace dei forti

149

CTV e la nuova televisione dell'antica Media

153

 

 

APPENDICE STORICO-CULTURALE

 

 

 

1. La Media e il Kurdistan

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Da Ahura Mazda ad Allah

163

«Dai secoli profondi verso il futuro, attraverso tempeste e tenebre»

169

Trentacinque milioni di kurdi: una nazione, nessun diritto

174

 

 

2. Il Kurdistan "colonia internazionale"

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Armenia: lo sviluppo della cultura kurda

180

Iraq: dal genocidio alle speranze di autonomia

181

Iran: la Repubblica di Mahabad e l'oppressione islamica

184

Siria: retrovia delle rivoluzioni

185

Turchia: il popolo che non esiste

186

 

 

Sigle dei partiti, delle organizzazioni politiche e delle associazioni kurde e turche citate nel volume

193

Bibliografia

195

Siti Internet

199

 

 

Laura Schrader, giornalista, esperta di politica mediorientale, scrive da oltre vent'anni sulla questione kurda per quotidiani e periodici. Grazie alla sua attività e ai rapporti di amicizia e collaborazione con intellettuali e politici del Kurdistan, ha potuto conoscere i diversi aspetti della cultura e della lotta del popolo kurdo e la realtà di una terra fino a pochi anni fa dimenticata. Ha pubblicato tra laltro “Canti d'amore e di libertà del popolo kurdo” (Roma 1993), “I fuochi del Kurdistan - la guerra del popolo kurdo in Turchia” (Roma 1995) e, per le Edizioni Gruppo Abele, “Sulle strade del Kurdistan” (Torino 1998).

 

 

Progetto grafico di Valter Oglino

Immagine di copertina:

rielaborazione grafica da una foto di Sheri Laizer

 

I edizione: novembre 1999

Stampa: Tipogratia Corall, Boves (CN)

E’ vietata la riproduzione anche parziale o ad uso interno o didattico

e con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia non autorizzata.

©1999

Edizioni Gruppo Abele

via Carlo Alberto, 18 - 10123 Torino

tel. 011/8142715-545489 - fax 011/545241

http://www.egalibri.it  e-mail: egamedia@tin.it

ISBN 88-7670-356-X

 

L’ingiustizia deve avere un centro e una fine e anche la tirannia ha bisogno di un pretesto

Firdusi

 

 

INTRODUZIONE

 

Il perenne conflitto della Turchia contro il popolo kurdo è lo specchio di un sistema ideologico e istituzionale che per esistere deve negare i valori di una società umana, democratica, multiculturale. E’ la chiave di volta di una repubblica dell'odio che riesce a sopravvivere soltanto attraverso la guerra e l'annienta­mento delle libertà fondamentali. In questo contesto, la lotta dei kurdi per la pace e la democrazia vede il sostegno della società civile turca: una minoranza coraggiosa pronta a pagare il prezzo della propria coerenza etica e politica.

Attraverso le parole e la storia di donne e uomini kurdi e turchi e con il contributo di una ricca e aggiornata documentazione, il volume descrive l'insostenibile realtà dell'ultimo fascismo alle porte dell'Europa. Un regime nato dalla "sintesi turco-islamica" del kemalismo, che alimenta la poderosa struttura del terrore di stato con attività criminose e con gli armamenti forniti con gene­rosità dai paesi amici e alleati.

Per inquadrare la questione kurda, in appendice si tratteggiano le principali linee della storia, della cultura, delle vicende politiche del popolo che in Turchia ancora oggi non esiste.

Torino, 31 agosto 1999

L. S.

 

1. Una Repubblica fondata sul razzismo.

 

Ahmet Altan e d diritto di essere schiavi

 

Se Mustafa Kemal, pascià ottomano, fosse nato a Mossul e non a Salonicco, avrebbe dato il nome di Repubblica di Kurdia allo stato nato dalla lotta comune dei turchi e dei kurdi di cui egli fu il leader... Se gli fosse stato attribuito dal Parlamento il nome di Atakürt...

Se noi fossimo chiamati kurdi, perché tutti i cittadini della Repubblica di Kurdia sono "kurdi", se fossero esposti, sulle mura di Taksim, Kadilöy, Kizilay, enormi scritte che dicono «Felice è colui che può dirsi kurdo»... Se in Kurdia si affermasse che i turchi non esistono, che i sedicenti turchi sono semplicemente kurdi, se si sostenesse che tutti quelli che si consi­derano turchi sono in realtà "kurdi del mare"...

Se dovessimo imparare a scuola che i kurdi hanno alle spalle settemila anni di storia, che sono i soli veri padroni dell'Anatolia, che in realtà i mongoli, gli unni, gli etruschi devono essere considerati come lloro antenati, e che i pascià kurdi furono gli eroi più grandi dell'Impero ottomano...

Se fosse vietato chiamarsi Teoman, Gengis, Attila o Osman, se fosse obbligatorio chiamarsi Berfin, Biraj, Tiraj o Nawroz...

Se fosse proibita la creazione di una televisione turca, e se tutti i programmi televisivi fossero in lingua kurda...

Se fossimo obbligati a scrivere i nostri romanzi, i nostri racconti, la nostra poesia in kurdo, se non potessimo ascoltare altro che canzoni in kurdo, e se dovessimo pubblicare i nostri giornali in kurdo... Se a scuola l'istruzione fosse soltanto in kurdo e se fosse assolutamente vietato di insegnare in turco...

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Se per aver dichiarato «siamo turchi, abbiamo una nostra lingua e una nostra storia», ci si potesse gettare arbitrariamente in carcere... Se la polizia a Istanbul, Ankara, Izmir e Bursa non smettesse di perse­guitarci, se le "unita speciali" ci accusassero di essere "separatisti", di tentare di dividere la Repubblica di Kurdia e ci trattassero sempre come "criminali", se noi potessimo essere offesi per il solo fatto di essere turchi...

Se dopo il colpo di stato del 12 settembre l’intera popolazione della Kurdia occidentale fosse stata gettata in prigione, se avesse dovuto subire torture incredibili, essere sepolta in loculi dove si affonda negli escrementi fino al collo, se i suoi organi interni fossero stati sfondati da getti d'acqua ad alta pressione, se cani arrabbiati le avessero sbranato le gambe...

Se avessero frugato le nostre case, con il pretesto che noi avevamo sostenuto i "terroristi turchi" separatisti, e se poi le nostre case fossero state distrutte, e se noi avessimo dovuto rifugiarci a Diyarbakir e a Hakkari senza poter portare nulla con noi, e se dovessimo vivere sotto una tenda...

Noi avremmo sopportato tutto questo? Avremmo accettato dichiarazio­ni come: «Cittadini della Repubblica di Kurdia, voi siete tutti kurdi. Perché parlate di separatismo turco? Se volete, potete diventare perfino primo ministro» considerandoli segnali di autentica legalità? Oppure avremmo rivendicato con accanimento il riconoscimento, da parte di questo stato, di uguali diritti per la nostra identità, la nostra lingua, la nostra cultura turca?

In questo paese vi sono abitanti turchi e kurdi, ma la storia ha imboccato "la via turca" e oggi noi chiediamo ai kurdi di essere soddisfatti di una condizione che noi probabilmente avremmo rifiutato, in quanto "tur­chi". Questa pretesa ci ha condotti all'esplosione e ha portato il paese prima verso il terrorismo, poi verso la guerra civile.

Se alcuni si dicono persuasi che soltanto la democrazia e il riconosci­mento dell'identità kurda permetteranno di trovare una soluzione, i nostri dirigenti pongono sempre la stessa domanda: qual’è la soluzione democratica? Che cos’è l’identità kurda?

Essere democratici è, prima di tutto, dare ascolto alle rivendicazioni dei kurdi, rivendicazioni che sarebbero state le nostre se avessimo vissuto in una Repubblica di Kurdla.

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Vale davvero la pena di versare tanto sangue perché coloro che noi vogliamo considerare assimilati, non possono aver accesso a quanto per noi e naturale? Vale davvero la pena di portare il paese sull'orlo del precipizio per questo? Se pensate che non ne valga la pena, siete dei democratici.


“Atakürt”
è un articolo comparso il 17 aprile 1995 su «Milliyet» («La Nazione»), uno dei più diffusi quotidiani turchi. Lo firma Ahmet Altan, notissimo, brillante editorialista. In una colonna, Altan ricostruisce la storia ufficiale del suo paese rovesciandola. Mette in luce l’assurdità di uno stato, la Turchia, che dalle sue origini nega l’identità del popolo kurdo, perseguita chiunque osi affermarne l’esistenza, sottopone i cittadini kurdi – ma sarebbe meglio parlare di sudditi colonizzati – a una feroce repressione. Altan si rivolge, nel suo articolo, a quanti sono, come lui, autentici turchi; ai milioni di turchi che, accecati dalla martellante propa­ganda di stato, non si rendono conto delle fondamenta razziste su cui e strutturato il paese e dei costi altissimi che questo comporta per tutti: una barbarie senza fine.

Le reazioni all'editoriale non si fanno attendere. Il giorno dopo Ahmet Altan è licenziato, con la motivazione ufficiale di un levata di scudi dei lettori indignati e si apre contro di lui un veloce procedimento penale. Il reato per cui viene incriminato il giorna­lista è quello previsto dall'art. 312 del codice penale: istigazione all'odio razziale. Il processo – iniziato il 24 aprile, sette giorni dopo la pubblicazione di Atakürt – si conclude il 18 ottobre con una condanna a 20 mesi di carcere.

Ahmet Altan si è giocato la vita e la carriera per un appello alla democrazia. Da giornalista di successo, è diventato disoccupato, e malvisto dalle autorità, tenuto d'occhio dalla polizia, e si trova certamente nel mirino degli estremisti della "turchità", i “Lupi grigi” dal grilletto facile.

Nell'agosto del 1930, «Milliyet» aveva pubblicato una dichiara­zione del primo ministro Ismet Inonu: «Solo la nazione turca ha

((11))

il diritto di rivendicare i diritti etnici in questo paese, nessun altro elemento ne ha il diritto». E nel settembre dello stesso anno, dalle pagine del medesimo quotidiano, il ministro della giustizia Meh­met Esat approfondiva il concetto: «Il turco è il solo signore, il solo padrone di questo paese. Coloro che non sono di pura origine turca hanno un solo diritto in questo paese: il diritto di essere servi, il diritto di essere schiavi». Questo "diritto" è sancito dalla Costituzione. La terza Costituzione turca, varata nel 1982 dopo il golpe del 12 settembre 1980, recepisce pienamente lo spirito dei primi anni della Repubblica kemalista.

Fin dal preambolo, la Costituzione afferma sostanzialmente che in Turchia esiste un solo popolo, il popolo turco. L'art. 26 stabi­lisce: «Una lingua proibita non può essere usata per esprimersi e per diffondere opinioni. Scritti, stampati, registrazioni, registra­zioni musicali, film e ogni altro mezzo che contravvenga a questa norma saranno sequestrati dalla magistratura o da altre autorità». La lingua proibita, mai menzionata perché i kurdi non esistono, è, nei fatti, il kurdo. Per far rispettare la norma non è necessario un giudice, basta qualunque autorità amministrativa. L'art. 28, che stabilisce la libertà di stampa, aggiunge però: «Nessuno può pubblicare in una lingua proibita». E’ punito anche chi scrive e stampa o diffonde temi che minacciano la sicurezza e l'indivisibile integrità dello stato, in qualunque lingua, sia essa " proibita" , turca o straniera.

Si ripete molte volte nella Costituzione quanto enunciato nel­l’art. 14: «Nessun diritto e libertà può essere esercitato allo scopo di violare l'indivisibile integrità dello stato, che comprende la terra e la nazione». In altre parole, come dice l’art. 1, l'unica "nazione" è quella turca e, come ribadisce l’art. 66 della Costitu­zione: «Ogni cittadino della Turchia e un turco».

Anche altre questioni di minoranze, come quella armena e greca, cadono nell'ambito di queste leggi, e infatti non è facile in Turchia esprimersi su questi temi. E nonostante le clausole del trattato di Losanna a tutela delle minoranze religiose cristiane, si

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è avuta, negli anni '80, un'ondata di circoncisioni compiute manu militari a danno degli armeni, e anche in seguito, negli anni '90, vi sono stati attentati incendiari contro chiese greco-ortodosse.

I kurdi in Turchia sono dunque criminalizzati fin dalla nascita dalla legge fondamentale dello stato, perché il solo fatto di non essere turchi e di parlare una lingua diversa dal turco li rende colpevoli di separatismo. La legislazione penale, coerente con la Costituzione, prevede per questo reato condanne severe, che possono arrivare alla pena di morte. L'art. 125 del codice penale dispone: «Ogni atto commesso allo scopo di annettere totalmente o parzialmente il territorio dello stato alla sovranità straniera o ogni tentativo di distruggere l'integrità dello stato, o ogni persona che miri a separare una parte del territorio dello stato, sarà punito con la pena di morte». Anche parlare in kurdo, o dire "Io sono kurdo" può essere considerato un tentativo di distruggere la monolitica integrità dello stato. Vi sono comunque molte altre norme, che specificano i reati di questo genere. Per esempio, l'art. 312, comma 2 del codice penale, che dice: «Chiunque, per consi­derazioni razziali, religiose, di classe o regionali, inciti il popolo all'antagonismo e all'odio, è punibile con il carcere da 1 a 3 anni». La pena e raddoppiata se il reato è compiuto a mezzo stampa. Questo articolo viene applicato, per esempio, a chi indossa il vietatissimo tricolore kurdo (rosso, giallo, verde): sono finiti nelle stazioni di polizia anche dei neonati, ai quali le mamme avevano legato il ciuffo con nastrini sovversivi. Per non incorrere nel crimine di propaganda separatista compiuta a mezzo semaforo, lo zelante sindaco di Batman aveva sostituito la luce blu a quella verde nelle installazioni della sua città.

Nel 1990, in seguito alle pressioni delle istituzioni europee, la Turchia decise di abrogare alcune norme del codice penale che eliminavano ogni libertà di opinione e di associazione (ma non quelle sopra citate, che continuano a essere in vigore).

Tuttavia poco dopo, con una manovra abituale nei confronti delle richieste di democratizzazione provenienti dall'Unione eu‑

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ropea, varava la legge 3713 del 12 aprile 1991, detta "legge antiterrore". Questa legge recepisce le norme repressive abrogate del codice penale e le inasprisce, collegando di fatto i "reati d'opinione" commessi in Turchia al "terrorismo", sinonimo di separatismo, a sua volta equivalente a "diversità". L'art. 1 della legge antiterrore definisce il terrorismo in modo tanto vago da farvi rientrare qualunque cosa; e introduce il reato di "azione terroristica compiuta a mezzo stampa". L'art. 8 della legge antiterrore è molto usato dai giudici, ovviamente anche nei confronti di trasgressori "di pura razza turca" come avrebbe detto il ministro Emet. Grazie a queste leggi, la Turchia è leader mondiale nella persecuzione dei giornalisti di qualunque nazionalità e passapor­to, imprigionati a decine ogni mese, compresi gli inviati dei più prestigiosi giornali e agenzie di stampa.

I reati contro l’integrità nazionale sono di competenza dei tribu­nali per la sicurezza dello stato. Secondo una statistica pubblicata nel 1998 dal quotidiano «Turkish Daily News», in media 100 persone ogni giorno, per lo più intellettuali, erano comparse davan­ti a queste corti marziali. Nel giugno 1999, mentre era in corso il processo al leader del PKK, il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Partya Karkeren Kurdistan), Ocalan, per compiacere l'opinione pubblica internazionale la Turchia ha abolito la componente mili­tare: fino ad allora, uno dei tre magistrati del DGM era un giudice militare. Resta il fatto che la magistratura non è un organismo indipendente, poiché i giudici sono nominati dall'esecutivo.

La Costituzione e le altre leggi della Repubblica Turca rifletto­no la mentalità genocida con cui venne fondata la Repubblica Turca. Un'impostazione razzista — in questo il kemalismo non è che una variante del nazismo e del fascismo — che persiste negli ambienti del potere, dominati dei vertici delle forze armate. La democratizzazione è resa impossibile dall'assetto costituzionale della Repubblica. Al di sopra del governo e del Parlamento, impera infatti il Consiglio per la sicurezza nazionale (MGK), in cui il presidente della Repubblica e il capo dell’esecutivo sono in

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minoranza rispetto alle alte cariche militari, e che ha il potere di abbattere il governo e di predisporre (attraverso la Corte costitu­zionale) lo scioglimento di partiti legali, quando questi si fanno interpreti di istanze democratiche o, in generale, si allontanano dai principi del kemalismo, ad esempio con programmi politici ispirati alla religione.

 

Ismail Besikci e l'onore del popolo turco

 

L'ideologia sulla quale si fonda la politica genocida della Re­pubblica Turca e le responsabilità del mondo democratico nella nascita e nella perpetuazione di un'atroce ingiustizia sono spiega­te nell'opera di un altro oppositore turco, il sociologo Ismail Besikci.

Di Besikci non si contano più i processi, gli anni di carcere, le ammende. Besikci, un piccolo grande uomo dal volto mite dietro gli occhiali rotondi, nato nel 1939 a Iskilip, scrive libri di sociolo­gia, storia, politica sulla questione kurda. In favore di Besikci si sono mobilitati più volte scrittori famosi come Harold Pinter e Arthur Miller e un gran numero di personalità di tutto il mondo. Ma Besikci rimane in carcere. E’ stato condannato a un totale di oltre 200 anni. Alla fine del 1998, su quattordici libri pubblicati, tredici erano stati vietati, confiscati o distrutti. La prima condanna è del 1967, l’ultima del 1994. Nel 1999, ha già scontato in totale "soltanto" venti anni di carcere, non consecutivi, poiché le con­danne sono state diverse, comminate all'uscita di ogni suo libro e perché in passato ha potuto beneficiare di un'amnistia, indotta da una forte presa di posizione di notissimi scrittori di tutto il mon­do. I suoi libri, pubblicati tra una detenzione e l’altra, hanno coinvolto nella repressione alcune coraggiose case editrici, colpite da ammende altissime e da pene detentive per i responsabili. Dalla sua disarmata guerra personale contro  il regime di Ankara, Be­sikci non intende retrocedere ne ritirarsi. «Combatto in nome del

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dibattito scientifico, che non dovrebbe ammettere tabù e interdi­zioni, e per salvare l’onore del popolo turco» afferma, dalla cella nr. 5 della prigione centrale di Bursa dove sconta l’ultima condan­na, a 67 anni.

Dal carcere potrà magari uscire ancora un qualche suo mano­scritto, ma forse l’uomo Besikci non uscirà più. Le autorità turche negli anni '90 sono state irremovibili. Inutile è la campagna di Amnesty International, che lo ha adottato come prigioniero di coscienza; inutili gli appelli dei democratici di tutto il mondo, che nel 1997 gli hanno dedicato a Berlino una conferenza internazio­nale. Un omaggio che ben pochi intellettuali, per quanto impor­tanti, possono vantare nel loro cursus honorum. Un tributo alla coerenza e alla dignità dell'uomo, e non soltanto alla sua opera. Besikci è stato il primo tra gli intellettuali turchi ad avere il coraggio di dire la verità sul Kurdistan e il popolo kurdo, entità inesistenti, secondo il regime, e tuttavia tanto scottanti che soltan­to a parlarne si rischia la Corte marziale, tanto concrete da provo­care una guerra atroce che dura da 15 anni, tanto odiate da indurre il potere a rifiutare ogni prospettiva di pace e ad aver messo in atto una "soluzione finale" come quella adottata per risolvere il problema degli armeni.

II primo saggio, “Il sistema in Anatolia orientale; fondamenti socio-economici e etnici” (1967) valse a Besikci la perdita del lavoro di assistente all'Università di Erzurum e una condanna a 12 anni e 6 mesi di reclusione: il suo lavoro implicava evidentemente il riconoscimento dell'esistenza di quel popolo diverso che vive nell'innominabile Kurdistan. Nell'autodifesa in occasione della seconda condanna, causata dalla pubblicazione di “La tesi turca della storia, la teoria della lingua del sole e la questione kurda” (1978), Besikci dichiarò di fronte alla Corte marziale: «L'ideologia ufficiale in Turchia proclama che il popolo kurdo non esiste. Afferma che non esiste la lingua kurda. Stabilisce che i kurdi sono turchi che vivono in montagna [...] Ma gli studiosi devono con­frontarsi con la realtà vera, non con quella che si vuole fabbricare [...]

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Non sono io l’imputato, in questo processo. In verità, impu­tato
è il pensiero. E la scienza».

“La tesi turca della storia” fa parte di una serie di quattro saggi in cui Besikci analizza il razzismo in Turchia: gli altri libri sono dedicati alle deportazioni, all'ideologia kemalista (che finisce per attribuire ai turchi il ruolo di "razza superiore", o meglio, di unica "razza"), ai massacri di Dersim.

«La tesi turca della storia e la teoria della lingua del sole – spiega Besikci – furono formulate negli anni '30 da accademici compiacenti, i quali "dimostrarono" che "tutte" le civiltà del mondo (da quella cinese a quella romana) vennero create dai turchi, i quali, dall'Asia centrale, si stanziarono ovunque; e che, pertanto, tutte le lingue del mondo derivano dal turco, la lingua del sole». Appro­f6ndendo la dottrina della "lingua del sole", gli accademici degli anni '80 sono giunti a un'importante scoperta: il "soprannome" di kürt con cui i "turchi della montagna" indicano se stessi, è di origine onomatopeica, deriva dal rumore dello scricchiolio della neve sotto le scarpe, che fa kürt-kürt. Queste teorie vengono insegnate nelle scuole e talvolta riaffermate dai media di regime: così, la maggioranza dei turchi ritiene in buona fede che i conna­zionali "di montagna" non abbiano alcun motivo per sentirsi diversi ed è pronta a credere che il movimento kurdo sia inventato dai comunisti o sia frutto delle manovre di stati ostili, nell'intento di destabilizzare il paese.

Nel suo saggio più noto e tradotto in varie lingue, “Kurdistan, una colonia internazionale” (1990), Besikci aveva denunciato du­ramente il razzismo su cui si fonda lo stato turco: «Un razzismo radicale – argomenta – peggiore dell'apartheid sudafricana e della situazione palestinese, perché arriva a negare l’esistenza stessa del popolo che il regime si impegna con ogni mezzo a eliminare».

Besikci inserisce nei suoi saggi un'ampia documentazione non on soltanto delle atrocità commesse dalle forze governative nei con­fronti di civili kurdi colpevoli soltanto di appartenere a un'etnia

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negata, ma raccoglie anche un'antologia dell'assurdo derivante dalla determinazione di cancellare la realtà.

Un regime che nega 1'esistenza di un quarto dei suoi sudditi e nello stesso tempo li sevizia in quanto portatori di una sovversiva diversità, riesce infatti ad avvolgere l’intero paese in un'atmosfera surreale, tragica con spunti di comicità. Come quando le relazioni diplomatiche tra Turchia e Iran vennero al punto di rottura per una svista delle linee aeree iraniane. Gli aeromobili della compa­gnia di bandiera portano ciascuno il nome di una diversa regione dell'Iran, e tra esse quella abitata dai kurdi è chiamata Kurdistan; quando, per caso, atterrò a Istanbul un velivolo con questo nome, le autorità turche reagirono con la dovuta energia a quell'insop­portabile provocazione. «L'ideologia di regime – denuncia Be­sikci – da una parte nega e punisce la realtà di una cultura diversa, dall'altra tenta di impadronirsene, in un labirinto di irrazionalita». Racconta un giornalista egiziano che un diplomatico turco, negli anni '60, protestò formalmente con il presidente Nasser per le trasmissioni in kurdo diffuse da una radio del Cairo. «Perché? – chiese il presidente egiziano. – Ci sono forse dei kurdi, in Tur­chia?»?. «Assolutamente no» fu costretto a rispondere il diploma­tico. «E allora, non vedo perché dobbiate lamentarvi» concluse Nasser. Il regime che arresta e tortura chi si azzarda a cantare in una privata festa di nozze una canzone proibita, utilizza poi notissime melodie kurde con parole turche. «Oppure – riferisce Besikci – arriva a far pubblicare la traduzione del capolavoro kurdo Mem u Zin a nome di un fantomatico autore (turco), salvo poi ripensarci e ritirare tutte le copie dalla circolazione...». Ma neppure Besikci, grande collezionista di episodi del genere, pote­va prevedere l'ultima geniale trovata di regime tesa all'impossibile assimilazione dell'indomabile cultura kurda: l’invenzione della festa turca Nevruz, avvenuta mentre il sociologo è in carcere.

Nel 1992 la popolazione kurda cominciò a celebrare pubblica­mente il suo Capodanno, Nawroz. Per cinque anni contro la festa popolare si mossero i carri armati e l’aviazione; si mobilitarono allora decine di delegazioni umanitarie europee, nel tentativo di fermare i massacri. Dal 1997, il problema è risolto: per legge, Nawroz è diventato Nevruz. Non è più il Capodanno iranico, che i kurdi celebrano come festa della liberazione. E’ una festa "auten­ticamente” turca: il governo ha deciso che proprio in un 21 marzo era giunta in Anatolia la lupa grigia Asena che aveva guidato i turchi verso occidente dalla loro patria immaginaria, Ergenekon. Alcuni giornali si erano permessi di ironizzare domandando, fingendosi scandalizzati, come mai ci si fosse rammentati con tanto ritardo e all'improvviso, di una "tradizione millenaria". Il risultato del Nevruz? Nelle città turche e kurde, in una piazza le autorità,da sole, celebrano la nuova festa turca mentre, girato l’angolo, in un'altra piazza un'immensa folla kurda festeggia Nawroz con i colori nazionali, inneggiando alla liberazione e al leader Ocalan, circondata come prima dai carri armati, sorvolata dagli elicotteri da guerra, picchiata dai bastoni degli agenti anti­sommossa; migliaia e migliaia di persone come prima e più di prima finiscono in carcere, centinaia in ospedale, decine all'obito­rio.

In “Kurdistan, colonia internazionale” Besikci afferma con coe­renza logica e con passione etica il diritto all'autodeterminazione dell'intero popolo kurdo, diviso e colonizzato da stati che voglio­no annientarlo con atroci pratiche di genocidio, mentre i paesi democratici ai quali i kurdi rivolgono una disperata richiesta di aiuto non muovono un dito e versano "lacrime di coccodrillo".

Per questo Besikci ha rifiutato un buon numero di onorificenze e premi dedicati al riconoscimento del suo impegno per i diritti umani, proposti da organizzazioni del mondo occidentale: «Per denunciare – scrive il sociologo – l'ipocrisia di quei paesi i cui governi armano e finanziano una Turchia colpevole della distru­zione del popolo kurdo, mentre le loro organizzazioni non gover­native vogliono mettersi la coscienza in pace ricompensando alcu­ne delle vittime di questa politica feroce».
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La sedicenne Saadet e la tortura strumento di genocidio

 

Saadet Akkja, 16 anni racconta: «Sono stata interrogata da 7 o 8 poliziotti che gridavano e dicevano parole oscene; mi hanno tolto la giacca, la blusa e il reggiseno [...] poi mi hanno sospesa a una croce con delle corde; io penzolavo per le braccia. Mi hanno dato scosse elettriche alle punte delle dita e ai capezzoli [...] Nonostante io opponessi resistenza e gridassi, mi hanno tolto la gonna e le mutandine, tutti i poliziotti hanno continuato a toccar­mi il seno, la vagina e altre parti del corpo. Un poliziotto nudo mi ha violentato [...]. Mi hanno sospesa per le braccia di nuovo. Due poliziotti mi tenevano le gambe divaricate. Io ero in preda al panico e urlavo. Sono stata percossa nella vagina con il fondo di una bottiglia, sono svenuta. Quando ho ripreso conoscenza mi hanno riportato in cella […]. Ero stata interrogata per sette ore. Tutte le mutandine erano coperte di sangue. Le perdite di sangue continuarono per cinque giorni. Sebbene chiedessi costantemen­te di vedere un dottore, non mi concessero una visita medica. La tortura continuò per quindici giorni». E’ una delle testimonianze di torture su bambini e ragazzi kurdi, accertate, documentate e pubblicate da Amnesty International in “Bambini” (collana «Docu­menti», Roma, settembre 1989).

«Se dopo il colpo di stato del 12 settembre l'intera popolazione della Turchia occidentale fosse stata gettata in prigione, se avesse dovuto subire torture incredibili, essere sepolta in celle dove si affonda negli escrementi fino al collo, se i suoi organi interni fossero stati sfondati da getti d'acqua ad alta pressione, se i cani arrabbiati le avessero sbranato le gambe ... » aveva scritto Ahmet Altan, ben sapendo che il colpo di stato militare del 12 settembre 1980 aveva come obiettivo l'annientamento della popolazione kurda.

I golpe del 1961 e del 1970 non erano stati sufficienti a paraliz­zare le aperture democratiche che – in un continuo braccio di ferro contro la repressione – si erano fatte strada nel paese. Per un breve periodo, tra la primavera del 1969 e la fine del 1970, avevano potuto agire i “Circoli culturali rivoluzionari dell'est” (DDKO). I DDKO che operavano unicamente nel settore dell'in­formazione e della cultura denunciavano anche – all'intero pae­se – quanto avveniva nell'est, dove i cosiddetti "commando" (for­ze governative con compiti di terrorismo) compivano raid sangui­nosi nei villaggi e nelle città kurde. I democratici turchi e kurdi non potevano ignorare la gratuita ferocia scatenata nell'est. Anche Besikci aveva descritto che cosa avveniva abitualmente nei villag­gi, in quegli anni. Le forze della gendarmeria armate fino ai denti circondavano le case, uccidevano gli animali domestici, saccheg­giavano le provviste, distruggevano i pochi arredi, i poveri oggetti. Radunavano gli abitanti sull'aia e si abbandonavano a ogni genere di violenza. Le violenze sessuali – scrive Besikci – sono le più diffuse, perché mirano a distruggere non soltanto le persone, ma la cultura e il sistema sociale kurdo, fondato sui valori di pudore, dignità, rispetto. Violentare una donna davanti al marito e ai figli è peggio che sterminare la famiglia, condanna a una vita di vergo­gna e di autoisolamento e offende l’intera comunità. A volte – riporta tra l’altro Besikci – vengono denudate le donne e poi anche gli uomini; e le mogli sono costrette a trascinare in giro il marito tenendolo per il pene. Un'umiliazione collettiva, per calpe­stare l’identità kurda. Le ribellioni erano punite con una raffica di mitra. Nel 1971 avviene un fatto sconvolgente. Il “Türkiye isçi partisi” (TIP), il Partito operaio turco (fondato da alcuni sindaca­listi, a cui aderiscono operai e insegnanti delle grandi città), un partito legale e rappresentato in Parlamento, nel suo IV Congres­so adotta una risoluzione che afferma: «Il popolo kurdo esiste nell'est della Turchia. I poteri fascisti delle classi dominanti appli­cano nei confronti del popolo kurdo una politica di terrore e di assimilazione che si traduce in sanguinosa repressione ... ». Nello stesso anno avviene il secondo golpe militare che, come il primo, del 1960, è dovuto all'affiorare della questione kurda, testa di ponte per la democratizzazione della Repubblica: nel giugno del

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1971 la giunta militare fa condannare il TIP alla chiusura e i suoi i dirigenti a 12 anni di carcere. La repressione dei partiti legali e delle organizzazioni culturali (anche i DDKO erano stati eliminati dal regime e i suoi membri duramente puniti), favorisce il fiorire di diverse organizzazioni clandestine di estrema sinistra, mentre alcuni intellettuali turchi e kurdi non smettono di affermare 1'esistenza e la cultura kurda in avventurose pubblicazioni. Finiscono in carcere o in esilio, ma la questione kurda rimane aperta, la cultura dell'est pare incancellabile. Uno smacco per il potere. Eppure, dalla nascita della Repubblica, l'est, sottoposto alla legge marziale, è stato volutamente lasciato in condizioni di miseria; deve restare un immenso carcere, una caserma globale, l'impero delle grandi installazioni militari, turche e della NATO. Della sgradita popolazione va incentivata la distruzione – possibilmente terminando l’opera in corso fin dagli albori della Repubblica – prima che si affermino le rivendicazioni di un qualche suo diritto: «Lasciateli morire, sono soltanto kurdi» avevano detto le autorità turche ai delegati della Croce rossa internazionale arrivati a por­tare soccorso dopo il terremoto del 1976 che aveva sbriciolato i poveri villaggi e seppellito migliaia di persone; la frase venne riportata da «The Times» e da «Famiglia cristiana».

Si doveva intervenire in modo globale contro la minaccia asso­luta: l’esistenza di un popolo. Nel preambolo della Costituzione del 7 novembre 1982, opera dei golpisti, viene detto esplicitamen­te che i militari erano «Venuti a rispondere all'appello della nazione turca» in un momento in cui l'integrità dell'eterna nazio­ne turca, della madre patria e dell'esistenza del sacro stato turco» erano minacciate dall’ “approccio del separatismo”. Non è facile eliminare un quarto della popolazione del paese; i metodi del potere turco, come insegnano il genocidio degli armeni, la strage dei greci e i massacri dei kurdi, non sono lineari e scientifici come quelli nazisti. La giunta militare non sceglie le camere a gas, ma il terrore di stato: detenzione di massa, morte o lesioni permanenti fisiche e psichiche da tortura, massacri nelle carceri al minimo

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segno di protesta. I motivi legali non mancano. Le precedenti costituzioni e leggi turche avevano espressamente lasciato in vigo­re le leggi razziste degli anni '20 e '30 (che, tra l’altro, consentono deportazioni e proibiscono l’ingresso in alcune aree del Kurdi­stan) e ne avevano emanate altre altrettanto repressive. La nuova Costituzione ribadisce e inasprisce il divieto di qualunque manifestazione di identità nazionale diversa dal turco; le province dell'est, abitualmente in regime di stato d'assedio, vengono sotto­poste allo "stato di emergenza", più duro della legge marziale, in cui l’esercizio dei più elementari diritti umani e civili è interdetto: sono governate da un prefetto speciale che ha nei fatti potere di vita e di morte. Tra il 1980 e il 1983 sono pubblicati diversi regolamenti e leggi che puntualizzano i vari aspetti in cui si articola l’ossessiva salvaguardia dell'eterna nazione turca. Queste norme sono riportate, ad esempio, nella pubblicazione “Destroying ethnic identity: the kurds of Turkey” dell' “Helsinky Watch Commit­tee-USA” (Washington-New York, marzo 1988). «E’ stato accer­tato che i balli folkloristici sono tuttora praticati fra la popolazio­ne dell'est e sud-est dell'Anatolia per fini etnici e separatisti [...] e che le canzoni cantate durante dette danze sono un pericolo per la nostra integrità territoriale e per l’unita nazionale ... » ammoni­sce, nel 1983, il ministro dell'educazione nazionale, sollecitando i governatori provinciali alla repressione. La legge nr. 2820 del 1983 vieta ai partiti politici di dichiarare che esistono minoranze nel territorio della Repubblica, proibisce di prendere in conside­razione le questioni regionali o etniche e di usare o proteggere lingue diverse dal turco. Questa legge specifica, che si aggiunge a quanto già vietato dalla Costituzione, dal codice penale, e comun­que da tutta la legislazione in vigore fin dalla nascita della Repub­blica spiega, se ancora vi fossero dubbi, che per il popolo kurdo la via democratica delle rivendicazioni politiche è preclusa, costi­tuisce un crimine duramente sanzionato per legge (e ancor più terribilmente punito nella prassi, con la tortura, i sequestri, gli assassini politici). Ma la legge più micidiale è la nr. 2932 del 19

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ottobre 1983, chiamata dai kurdi «Bando dell'uso della lingua anche in casa e nell'orto». Ribadisce che «La madre lingua di tutti  i cittadini turchi e il turco». Torna a vietare di esprimersi nella "lingua proibita", precisando che il divieto vale anche nei rapporti privati, sia nelle conversazioni che per lettera. In base ad essa, chiunque in Turchia può essere imprigionato (e di conseguenza torturato) per aver detto una sola parola in kurdo in casa propria. Questo stato di cose – insieme al gran numero di carceri e stazioni di polizia che fungono da prigioni e luoghi di sevizie – spiega la frase di Altan («Se tutta la popolazione [...] fosse gettata in carcere») e le cifre colossali fornite dalle associazioni come AI e Helsinki Watch sul numero dei detenuti kurdi dopo il golpe del 12 settembre. Un esempio tra centinaia di migliaia, riportato da AI in “Bambini”: Sefinaz Yilboga, giovanissima studentessa di Kon­ya, è stata imprigionata per due mesi per aver incautamente detto in classe di essere di origine kurda.

L’ossessione del popolo diverso, da distruggere nella sua identità e esistenza fisica partendo da strumenti "legali" ha alimentato la pratica della tortura, che quasi sempre comprende stupri di donne e uomini anche in eta giovanissima (e con bottiglie rotte, bastoni, manganelli) e che frequentemente causa lesioni perma­nenti, alterazioni psichiche e la morte (un'ampia documentazione è contenuta anche nei rapporti ufficiali della Commissione diritti umani dell'ONU e nelle sentenze contro la Turchia del Tribunale europeo per i diritti umani). Gli autori delle sevizie e degli omicidi in custodia non vengono perseguiti, e nei rari casi in cui sono individuati e processati per lo scalpore suscitato alle associazioni per i diritti umani, come e avvenuto nel 1998 per un gruppo di poliziotti che avevano violentato e torturato dieci ragazzi tra gli 11 e i 14 anni, ottengono condanne simboliche. Violentare, seviziare con ogni mezzo e infine uccidere il detenuto, insomma, non è peccato (forse è patriottismo) ed è pratica comune, come dimo­stra uno tra le migliaia di casi documentati: «Mehmet Kalkan e io eravamo entrambi appesi al soffitto – racconta Serda Cihan, prigioniera del carcere di Diyarbakir –. Chiesero a lui se mi conoscesse […] gli chiesero di violentarmi. Egli si rifiutò di farlo, ma due torturatori fecero ciò che non erano riusciti a fargli fare, mi violentarono. Kalkan non poteva sopportare le loro risate e imprecò contro di loro [...]. Loro provarono a fargli bere dell'urina. Nel frattempo mi portarono fuori dalla stanza. Lo stesso giorno, il 14 giugno 1987, mi dissero che Mehmet Kalkan non era venuto qui per andarsene come un essere umano, ma aveva pre­ferito morire come un cane» (AI «Research Papers», “Turchia: i diritti umani negati”, Roma, novembre 1988). Dal 12 settembre­1980 nessun kurdo può pensare di sottrarsi alla repressione: basta essere sorpresi a conversare o aver scritto una lettera nella lingua proibita, basta rivolgersi a un ufficio pubblico o a un ospedale senza saper parlare il turco, come accade abitualmente alle perso­ne anziane, ai bimbi in eta prescolare e agli abitanti dei villaggi, per conoscere l’orrore del carcere. Anche i contadini dei villaggi più remoti, che nel decennio precedente non comprendevano neppure il perché delle persecuzioni dei commando, si rendono conto che il motivo sta nel loro essere kurdi.

 

Harold Pinter e la lingua della montagna

 

Il momento del passaggio dalla condizione di vittima inconsapevole alla dignità della ribellione è descritto in una piece di Harold Pinter. Lo scrittore, in un salotto di Londra, aveva com­mentato con stupore la condanna, in Turchia, di intellettuali per reati di opinione relativi alla questione kurda ed era rimasto colpito dal cinismo di alcune giovani donne della borghesia turca, che schernivano i condannati. Per capire, era andato sul posto e al ritorno aveva scritto “La lingua della montagna”, rappresentata a Londra per la prima volta nell'ottobre 1988 (con la regia dello stesso autore e l'interpretazione di Miranda Richardson e Eileen Atkins). Protagonista è l'anziana madre di un detenuto kurdo, che

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tenta di far visita al figlio in carcere. Con la nuora, deve attendere otto ore in piedi, nella neve, tenuta a bada dai dobermann dei poliziotti, uno dei quali quasi le stacca la mano. Le due donne sono poi interrogate in modo assurdo da un funzionario e da un sergente. Vengono insultate pesantemente: «I vostri mariti, i vo­stri figli, i vostri padri, questi uomini che aspettate di vedere, sono mucchi di merda. Sono nemici dello stato. Mucchi di merda», dice il sergente, e il funzionario aggiunge: «Ora, sentitemi bene. Siete gente della montagna. Mi sentite? La vostra lingua è morta. E’ proibita. Non vi è permesso di parlare in questo posto la lingua della montagna. Non potete parlare ai vostri uomini nella vostra lingua. Sarete punite duramente se tenterete di parlare qui la vostra lingua della montagna». La giovane donna non usa la lingua della montagna, ma viene ugualmente insultata, derisa e molestata sessualmente. La madre del prigioniero conosce soltan­to la propria lingua, e quando finalmente riesce a vedere il figlio, non può parlargli. In una seconda visita, e “fino a nuovo ordine», ha però il permesso di usare la lingua proibita, secondo quello che potrebbe essere un capriccio dell'autorità, per dimostrare il pro­prio potere, oppure uno scherzo crudele. Ma di fronte al figlio, insanguinato e tremante, la madre rimane muta. Preferisce inflig­gere il dolore del silenzio – a se stessa e al figlio moribondo, che sta per crollare a terra e che la supplica di parlare – piuttosto di accettare la concessione di un potere inumano. E’ una presa di coscienza, il seme della ribellione. E’ lo stesso rifiuto dell'ingiusti­zia e della disumanità che, poco dopo il golpe del 12 settembre, aveva portato quaranta ragazzini kurdi a scegliere di morire in carcere sotto le bastonate piuttosto di rispondere in turco ai loro aguzzini, lo stesso rifiuto che spinge i detenuti politici kurdi – donne e uomini – a essere massacrati dalle spranghe dei carcerieri, a continuare fino alla morte gli scioperi della fame, a morire nel fuoco.

Il dramma di Pinter, che nella nostra cultura potrebbe – contro le intenzioni dell'autore – essere considerato metaforico, riflette invece una realtà quotidiana. E’ impossibile, per i prigionieri che non sanno il turco, anche comunicare con i loro avvocati, anch'es­si incarcerati e processati se scambiano una parola nella "lingua della montagna", e spesso "misteriosamente" seviziati e uccisi per aver assunto le difese di un kurdo. La legge che bandisce l’uso della lingua kurda anche in privato è stata abolita alla fine del 1991 (dopo la guerra contro l’Iraq, che aveva reso visibili i kurdi iracheni nell'esodo sulle montagne e che aveva risvegliato le mire di Ankara sul territorio petrolifero kurdo iracheno) ma rimane vietato in carcere parlare kurdo con i difensori, i parenti, gli amici, perché il carcere è un edificio pubblico. Rimane pienamente attuale il dramma di Pinter, che riflette la sofferenza di innumere­voli madri, padri, fratelli e sorelle costretti a non scambiare una parola, dopo viaggi estenuanti e attese interminabili, con i familia­ri detenuti, per non essere imprigionati a loro volta e per non aggravare le condizioni del prigioniero.

Dopo il golpe del 1980 le associazioni per i diritti umani denun­ciano e documentano, il Parlamento europeo emana risoluzioni, si pronunciano contro Ankara altri organismi europei. Risultato? La Turchia nel 1987 comunica ufficialmente al Consiglio d'Euro­pa, di cui fa parte, di sospendere nelle province in stato d'emer­genza l'applicazione della Convenzione sui diritti dell'uomo, esclu­de i bambini dell'est dal Trattato sui diritti dei bambini, espelle le associazioni come Amnesty International. Il punto della situazio­ne può essere fatto ricordando una delle risoluzioni del Parlamento europeo, che il 17 maggio 1990 tornava a insistere: «Il Parla­mento europeo, considerando che la situazione dei diritti umani in Turchia è stata uno dei motivi principali che hanno indotto la Commissione a dare, a suo tempo, un parere negativo all'adesione della Turchia alla CEE [...] Che secondo innumerevoli rapporti di organizzazioni quali Amnesty International e Helsinki Watch, in Turchia è ancora pratica diffusa la tortura di prigionieri per strappare loro confessioni [...] Che il sociologo turco Ismail Be­sikci è stato arrestato il 12 marzo 1990 per il suo libro “Kurdistan:

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colonia di più stati”, sequestrato per propaganda separatista [...] Ritiene che l'abolizione della detenzione in condizioni di assoluto isolamento sarebbe il più importante passo verso l'abbandono della pratica della tortura negli uffici di polizia turchi [...]. Confida nel rapido rilascio di Ismail Besikci e di tutti coloro che hanno fatto uso pacifico della libertà di espressione e di associazione. Ritiene che soltanto il riconoscimento dei diritti politici, sociali e culturali della minoranza kurda in Turchia possa permettere una convivenza pacifica nelle province sud-orientali ed esorta il gover­no a non reprimere e criminalizzare ulteriormente le pacifiche espressioni dell'identità etnica dei kurdi [...] Auspica che le parti in conflitto giungano a una soluzione pacifica e democratica del problema  della minoranza kurda». Questa risoluzione chiede anche l'abrogazione degli articoli del Codice penale turco che violano la libertà di associazione e di parola: «Considerando che i maggiori problemi in fatto di diritti dell'uomo in Turchia sono causate da tali norme», e chiede la revoca immediata del decreto del 9 aprile 1990 «In quanto incompatibile con il rispetto dei diritti dell'uomo». Si tratta del decreto legislativo che invece diventerà la legge 3713/91 detta "legge per combattere il terrorismo", che di fatto rende "kurdo" sinonimo di "terrorista". Nelle risoluzioni europee, non viene presa in considerazione la Costitu­zione, matrice delle leggi che negano i diritti fondamentali: il punto è molto rilevante, perché questo significa che la stessa Repubblica Turca si fonda sul precludere ogni diritto a una parte dei cittadini-sudditi, per motivi etnici. In altre parole, la Turchia istituzionalmente si fonda sul razzismo. Infine: uno dei punti della risoluzione dice seccamente che il Parlamento europeo condan­na gli atti terroristici», senza precisare la provenienza di questi atti. Come non pensare a un'allusione al terrore di stato, visto il modo con cui Ankara conduce "la lotta al terrorismo"? [[[NOTA: Nella risoluzione, il Parlamento europeo inoltre esprime la sua profonda riprovazio­ne per la -sanguinosa repressione che ha colpito (ovunque) i manifestanti del primo maggio, invita ]a Turchia a liberate le centinaia di arrestati e «ad abolire il divieto di celebrare la festa del lavoro», auspica che il partito comunista, i cui dirigenti erano stati arrestati, possa partecipare alle elezioni (anche i partiti di ispirazione marxista sono fuori legge). Nel decennio successivo a questa risoluzione le manifestazioni del primo maggio continuano a essere sanguinosamente represse; e succede la stessa cosa perfino in quelle dell'8 marzo, con centinaia di donne arrestate e decine di ferite nella sola Istanbul, ad esempio, nella Giornata della donna del 1998]]].        '

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La situazione, risoluzione dopo risoluzione, denuncia dopo denuncia, peggiora di anno in anno, senza che contro il regime siano prese concrete misure internazionali adatte a limitare, alme­no, il disastro umanitario. L'inutilità degli sforzi per migliorare la situazione dei diritti umani in Turchia è rappresentata nel film “Forgotten Prisoners” prodotto da AI nel 1990. Nel film un delegato di AI dopo un'odissea di rifiuti, umiliazioni, attese, minacce, pericoli, arrivando fino al ministro degli interni riesce a far rila­sciare alcuni prigionieri arrestati senza motivo e orribilmente torturati con il pretesto di estorcere una confessione. Poiché nonostante tutto non ci sono prove, e AI insiste, i prigionieri vengono liberati, ma appena il delegato di AI sale sull'aereo la polizia si precipita ad arrestare brutalmente di nuovo le stesse vittime.

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2. La resistenza

 

Apo Ocalan e la guerriglia del PKK

 

«Se mi dicono: tu non esisti, arrenditi, allora sento il bisogno di difendermi. Non c'è vita nella resa». Con queste parole Abdullah Ocalan aveva spiegato la inevitabllita della lotta armata di resi­stenza in Kurdistan, iniziata ufficialmente il 15 agosto 1984. La globalità della repressione scatenata con il golpe del 12 settembre non dava al popolo kurdo nessuna alternativa: o scomparire o reagire. Ma con quali mezzi? Resa impossibile qualunque inizia­tiva democratica attraverso i partiti e perfino le associazioni cul­turali, non rimaneva che la clandestinità e infine l'aperta ribellio­ne.

Abdullah Ocalan è nato nell'aprile 1949 nei pressi di Urfa, città antichissima della piana di Harran (dove Abramo proveniente da Ur soggiornò a lungo prima di avviarsi verso la Palestina) la cui maggiore attrazione è la Fontana, uno specchio d'acqua dove nuotano "i pesci di Abramo". E’ nato, dunque, nel cuore del Kurdistan, in una famiglia di agricoltori kurdi, ma per tutti gli anni '80 e in parte ancora negli anni '90 la propaganda di regime ha cercato di convincere i kurdi che Ocalan è un armeno, che intorno a lui aveva pochi terroristi armeni, infiltrati dalla frontiera del piccolo stato cristiano, notoriamente avverso per motivi stori­co-religiosi alla Repubblica di Atatürk. Per i kurdi, Ocalan non è né un piccolo padre né un leader maximo, né un libertador: è un

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uomo dalla forte volontà, autorevole, carismatico, ma soprattutto è Apo,, lo zio, una persona di famiglia. Bejin Apo, viva lo zio, gridano i suoi "nipoti" nelle piazze del Kurdistan dove non si trovano a una festa tra parenti, ma sotto il fuoco dei carri armati e degli elicotteri.

Il “Partito dei lavoratori del Kurdistan” (PKK), co-fondato da Ocalan nel 1974 e nato ufficialmente con un programma di indi­pendenza nel 1978, ha raccolto intorno a sé milioni di kurdi che non potevano più sopportare le umiliazioni e le atrocità del regime. Ha dato speranza e voce a un popolo condannato a morte. Il PKK, per la sua natura di partito politico che si occupa di un popolo diverso dal turco, per legge non poteva e non può che essere clandestino.

La guerriglia di resistenza è condotta dal PKK attraverso l’Ar­mata di liberazione del Kurdistan (ARGK) che comprende un "esercito" di sole donne. In parallelo ad essa, per iniziativa del PKK, opera l’ERNK, il “Fronte di liberazione del Kurdistan”, for­mazione politica di cui fanno parte diverse associazioni della società civile.

Come i principali partiti del Kurdistan, anche 11 PKK non ha un programma nazionalista ma prospetta la convivenza democratica delle diverse etnie e religioni, delle quali devono essere rispettati i diritti culturali e la piena libertà di credo.

Nel PKK convivono esponenti e militanti appartenenti a popoli diversi dal kurdo, in particolare turchi (oltre a donne e uomini europei, nella guerriglia). Tra i quattro fondatori del partito, insie­me a Ocalan, due erano turchi della regione del mar Nero. Il PKK nel suo "manifesto" di fondazione univa alla lotta di liberazione dal colonialismo la lotta sociale e di classe, per il superamento delle strutture feudali della società kurda e del sistema economico basato sul potere dei grandi proprietari terrieri. Alla fase della liberazione nazionale doveva seguire la fase della rivoluzione democratica. Di fatto, attraverso l’ERNK, che riunisce associazioni di donne, stu­denti, lavoratori, intellettuali, professionisti, attivisti per i diritti

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umani, Ie due rivoluzioni, quella nazionale e quella democratica, si sono ben presto saldate in un unico movimento, chiamato Serhil­dan (Su la testa). Dagli albori degli anni '90, nell'intero Kurdistan e nelle città anatoliche dove si trovano kurdi, da Istanbul a Izmir, da Adana a Trebzond si e praticata a livello di massa la protesta civile democratica di Serhildan. Un'intera nazione ha alzato la testa, nelle carceri come nelle piazze, sostenuta a caro prezzo dai democratici turchi; purtroppo la maggioranza della popolazione turca, che ormai da generazioni ha assorbito il razzismo radicale su cui si fonda lo stato kemalista e che è condizionata dalla ossessiva propa­ganda di regime, non è ancora riuscita a esprimere un forte orien­tamento per la democrazia.

Per arrivare ad alzare la testa, il popolo del Kurdistan, umiliato e massacrato dai raid dei commando, dalla carcerazione e tortura di massa, dalla negazione della propria identità e alla propria stessa vita, ha bruciato le tappe di una evoluzione psicologica, etica, sociale, democratica. Gli stessi montanari che nel film “Yö1” del regista Yilmaz Güney non riconoscevano come appartenenti alla famiglia e al villaggio le vittime della ferocia di stato per paura di diventare vittime a loro volta, alcuni anni dopo sfidando la morte, disseppelliscono i corpi dei caduti della guerriglia dalle fosse comuni per celebrarne pubblicamente i funerali. La lotta del PKK ha dimostrato che non si può continuare a subire, che vale la pena di resistere. In aiuto dei contadini aggrediti perché tenta­no di seppellire degnamente i loro morti, nel 1990, intervengono i guerriglieri. Resistenza armata e resistenza civile in quell'occasione per la prima volta si saldano. La data simbolica dell'esplosione di Serhildan può essere il 9 luglio 1991, quando una folla immensa seguì a Diyarbakir i funerali di Vedat Aydin, un mite insegnante quarantenne, attivista del partito democratico HEP e per i diritti umani, uno dei tanti massacrati dalle squadre del terrore di stato.

Nella città chiusa per lutto, presidiata da centinaia di carri armati, sorvolata dagli elicotteri da guerra, centomila persone seguirono il feretro, avvolto nella bandiera dell'ERNK. Centinaia

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di feriti e dodici morti furono il bilancio della cerimonia, in cui a sparare furono soltanto le forze governative, fronteggiate da un pacifico sit in. Serhildan continua con le celebrazioni pubbliche di Nawroz, iniziate nel 1992: canti e danze sotto il fuoco dei blindati, con un bilancio di 102 morti e centinaia di feriti in alcune città kurde. Serhildan si manifesta anche con gli ormai famosi sabati di Galatasaray, iniziati nel 1993, che vedono la storica piazza di Istanbul gremita dal dolore silenzioso delle donne in nero  del Kurdistan, madri, mogli e, sorelle dei desaparecidos, molte tra esse, arrivate nella metropoli sul Bosforo da remoti villaggi di monta­gna che non esistono più per alzare in alto i ritratti delle figlie e dei figli scomparsi, chiedendo giustizia.

Serhildan è anche il coraggio di adire il Tribunale europeo per i diritti umani e ottenere la condanna dei torturatori. Accade che durante il fermo di polizia i torturati siano, tra l’altro, costretti a mangiare topi vivi o escrementi. Alcune delle vittime, quasi pazze di ribrezzo, una volta rilasciate si facevano strappare tutti i denti. Ma negli ultimi tempi anche alcune vittime delle torture e delle distruzioni, poveri contadini delle campagne, hanno osato portare il loro caso, attraverso le associazioni per i diritti umani, fino all'Alta corte europea, ottenendo la condanna del governo turco al risarcimento.

Tra i frutti di Serhildan, c' è il “Parlamento del Kurdistan in esilio” (PKDW), ospitato a Bruxelles, che si riunisce ogni sei mesi nei parlamenti di altri paesi europei. Nel Parlamento in esilio sono rappresentate tutte le fedi e tutte le etnie di minoranza del Kurdi­stan.

Il risveglio culturale ha portato allo sviluppo e alla valorizzazio­ne della cultura, dapprima con il gruppo artistico-musicale “Koma Cudi” (che prende il nome dal monte Cudi, dove secondo la tradizione cristiana orientale e il Corano e approdata I'Arca di Noè) e in seguito con il Centro culturale della Mesopotamia, con sedi a Istanbul e in altre città anatoliche e kurde, che raccoglie e sviluppa le espressioni culturali dei popoli dell'Alta Mesopotamia,

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resistendo alle distruzioni delle sedi e delle attrezzature, frequentemente razziate dalla polizia, nonché ai frequenti arresti e maltrattamenti degli artisti che lo compongono.

Serhildan ha voluto dire e vuol dire: «Non mi vergogno di essere kurdo. Non mi rassegno a torture, divieti, umiliazioni. Non accetto la miseria materiale, morale, culturale. Dico no alla distru­zione della mia terra, della mia vita, dei miei valori, perché ho dei valori. Di fronte alla violenza, non abbasso la testa, perché ho una speranza». Apo è diventato il simbolo di quella speranza che dal 1984 sostiene gli uomini e le donne della guerriglia, che talvolta hanno da mangiare e da bere soltanto la neve, in una incredibile resistenza contro uno degli eserciti più potenti del mondo che ha usato a fondo soldi, uomini e mezzi in grandi offensive terrestri e aeree senza ottenere la resa o l’auspicata distruzione della guerri­glia. Ed è nello stesso tempo il simbolo della speranza che sorreg­ge le molte manifestazioni pacifiche e democratiche di Serhildan. Secondo attendibili dati di osservatori europei, quasi tutta la popolazione (87%) del Kurdistan turco e siriano sarebbe a fianco del PKK. Il PKK raccoglie adesioni anche tra i kurdi in altri paesi del Medio Oriente, è seguito da una parte rilevante dei kurdi della diaspora mondiale e ha goduto di sostegno nel mondo arabo, soprattutto tra i siriani e i palestinesi, accanto ai quali i kurdi hanno combattuto in Libano nel 1982.

Alla fine degli anni '90 comincia a diffondersi nel mondo il "mito" Ocalan. L'incredibile durata della resistenza kurda contro un paese della NATO, armato massicciamente da tutto il mondo, sostenuto dagli Stati Uniti e alleato militare di Israele, altra poten­za bellica dell'area, insieme alle caratteristiche di questa resisten­za, che unisce uomini e donne di diversa origine nazionale, nel rispetto di tutte le religioni presenti nel mosaico mediorientale, induce alcuni analisti a definire Ocalan il «nuovo Salanddin dei popoli del Medio Oriente». Esistono naturalmente differenze abissali tra la situazione storica del XII secolo e quella di oggi, nonche tra il rivoluzionario di Urfa e il principe kurdo. Ma per

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alcuni politologi, che chiamano in causa anche la «vocazione transnazionale dei Medi», Ocalan potrebbe essere il leader di cui hanno bisogno i popoli del Medio Oriente, che non possono, evolversi perché sottomessi a dittature legate a interessi oligarchici interni (nel caso della Turchia, la casta militare e anche quella, politico-economica, dagli anni '80 legata alla mafia) e all'egemonismo delle grandi potenze. Ocalan stesso afferma che «La lotta di liberazione nazionale del Kurdistan è la chiave del progresso e della democrazia in Iran, Iraq, Siria e Turchia [...] Sfida l’ingiusto e impraticabile ordine imposto sul Medio Oriente dall'imperiali­smo e mantenuto da ricorrenti interventi politici e militari» e in prospettiva auspica la federazione dei popoli del Medio Oriente per la pace, la democrazia, lo sviluppo, nel rispetto delle diverse etnie e religioni.

I giornalisti contribuiscono al "mito Ocalan", con paragoni che spaziano da Mandela a Garibaldi [[[NOTA: Il giornalista Ragip Duran, corrispondente dalla Turchia del quotidiano francese «Libération», è stato definitivamente condannato, nel maggio 1998, a dieci mesi di carcere per un articolo in cui definitiva Ocalan "il Garibaldi,kurdo"]]]. Molti intellettuali — da Fo a Noam Chomsky, da Rushdie a Miller — sostengono la causa del PKK.

Nella seconda meta degli anni '90 Ocalan e il PKK cercano tenacemente, a partire dalla prima tregua unilaterale osservata per mesi dal 20 marzo 1993, di avviare il dialogo con Ankara per una soluzione pacifica della questione kurda. In risposta, i diversi governi turchi intensificano l'offensiva antidemocratica, sia sul piano militare, e della repressione interna ed esterna (contro i kurdi rifugiati all'estero), sia in campo internazionale. L'offensiva politica-diplomatica-commerciale di Ankara ottiene un successo clamoroso ma non definitivo nella prima meta del 1999 con il sequestro e la condanna a morte del presidente Ocalan. La perse­cuzione del PKK e del suo leader si fonda su una parola: "terro­rismo", applicata contro ogni evidenza a un movimento di liberazione

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nazionale che — a differenza di altre analoghe formazioni — si limita a combattere per la sopravvivenza, contro forze infinita­mente più attrezzate, nel proprio territorio. Il giornalista turco Ismet Inset ricorda che la definizione di organizzazione terroristi­ca, per il PKK, venne concordata a Washington alla fine degli anni '80 («The Economist», 8-14 giugno 1996). Poco importa di conseguenza la realtà descritta, tra gli altri, da un prestigioso inviato americano, Christophe Hitchens, il quale osserva: dl PKK è un partito politico con una milizia regolare tra le più disciplinate in tutto il Kurdistan e forse in tutto il Medio Oriente» («National Geographic», agosto 1992) o da un esperto in diritto internazio­nale, Jasim Tawfik Mustafa, che ricorda: «In più occasioni e in diversi documenti, il PKK ha dichiarato di rispettare le regole umanitarie dei conflitti armati riconosciute a livello internaziona­le: tale fatto e stato confermato dalle numerose inchieste giorna­listiche, turche e no, in particolare per quanto concerne il tratta­mento dei prigionieri di guerra» (“Kurdi: il dramma di un popolo e la comunità internazionale”, pp. 56-57).

Alla fine del '98 la legittimazione internazionale di un quasi ignoto “Esercito di liberazione del Kosovo”, l'UCK, ha evidenziato l'impudenza della politica imposta dagli Stati Uniti. Una politica che, pronunciando una parola magica, cinicamente criminalizza la lunga resistenza di un popolo negato e che, con un altro irresistibile incantesimo, trasforma in "combattenti per la libertà" un insieme di bande dedite ad attività criminali [[[NOTA: Sulla genesi, l'evoluzione e le attività criminose dell'UCK: Le Monde Diplomatique”, gennaio 1999 e maggio 1999; «Narcomafie», marzo 1999; «The Economist», 10-16 aprile 1999; «Liberazione» aprile 1999 (Michel Chossudovsky); «The Wall Street Journal - Europe», 20 maggio 1999.

Mai era avvenuto che un gruppo armato partecipasse, prima della presenza dell'UCK a Rambouillet, a negoziati internazionali, negoziati evidentemente predisposti come anticamera della guerra e non come ricerca di una soluzione politica.

Nel corso dell'aggressione della NATO alla Jugoslavia, le modernissime dotazioni militari dell'UCK e la presenza di suoi commandos specializzati (le “Tigri nere”, che operano mascherate come gli agenti speciali turchi in Kurdistan) sono stati mostrati nel documentario della televisione britannica “Channel Four”: «Jugoslavia: morte di una nazione» realizzato nell'estate 1998 e presentato da RAI 3 (17 maggio 1999).

L'esito — e forse le finalità — della guerra della NATO a fianco dell'UCK possono esseie riassunte dalle allarmatissime parole del sottosegretario Minniti sul «rischio enorme» che «il Kosovo si trasformi nella Colombia d'Europa», riportate dai quotidiani italiani del 17 agosto 1999]]].

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Un semplice gioco di formule, e l’UCK in meno di diciotto mesi di attività ufficiale diventa l’unico rappresentante dei kosovari albanesi, mentre – come vedremo – si scatena la caccia all'uomo che rappresenta la speranza di milioni di kurdi, mentre inutilmente risuonano le parole di Harold Pinter: «Oggi la dignità e l'umanità del mondo sono rappresentate dalla resistenza del PKK e dal suo leader, Abdullah Ocalan».

 

Haluk Gerger e la barbarie in Turchia

 

Chi vive in Turchia e conosce profondamente il paese si rende conto della tragedia che rappresenta, per il popolo turco, l’assue­fazione alla barbarie di una guerra a oltranza arrivata a pervadere la società. Non sara facile rimarginare la ferita inflitta dal potere militarista all'anima turca: «Ripercussioni terribili continueranno a deturpare la società turca per generazioni a venire», scrive il politologo Haluk Gerger.

Gerger è turco. Era docente di Scienze politiche all'Università di Ankara e venne incarcerato e privato dell'incarico in seguito al golpe del 1980. Rimasto in Turchia, dove pubblica saggi e articoli, è stato perseguitato più volte per reati d'opinione: ancora nel 1998 ha scontato dieci mesi di carcere.

Il politologo Gerger ritiene che il paese abbia bisogno, con urgenza, di un cambiamento radicale per uscire dall'abisso di violenza e inciviltà in cui lo ha precipitato l'ideologia ufficiale “basata sull'egemonia di una razza padrona”: nel primo semestre

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del 1999 si sono moltiplicati i casi di linciaggio di kurdi indifesi in numerose città anatoliche, a opera di cittadini turchi imbevuti di odio sciovinista. Gli avvocati di Ocalan sono stati malmenati dalla folla e dagli agenti di polizia perfino in tribunale. Il sequestro di Ocalan, vero atto di pirateria internazionale, il processo-farsa da parte di uno stato belligerante contro il leader dell'altra parte in conflitto e la conseguente condanna a morte, l’arroganza del governo e dei militari turchi nei confronti degli appelli europei, il rapimento a Bucarest di Cevat Soysal, un esponente politico e non militare dell'opposizione kurda, sottoposto a 11 giorni di torture in isolamento e (sempre nel luglio 1999) il mandato d'arresto internazionale emanato da Ankara contro il presidente, e i membri del Parlamento in esilio residente a Bruxelles, compongono un'im­magine agghiacciante del paese che insiste per essere ammesso a far parte dell'Unione Europea. E’ certamente auspicabile l’ingres­so nella UE di una Turchia equamente riformata; ma se il paese persiste nel fondarsi su ideologie e metodi dei fascismi degli anni '30, la sua presenza rischia di inquinare o annientare i valori (non sempre e ovunque saldissimi) dell'Europa democratica.

Non soltanto il  Kurdistan: tutta la Turchia è immersa in un clima di barbarie. Hanno fatto scalpore nel mondo le fotografie di soldati turchi che esibiscono all'obiettivo le teste mozzate di guerriglieri kurdi mostrate dalla rivista «The European» nel 1996. Ma immagini analoghe, e peggiori, appaiono da anni sugli schermi televisivi in Turchia, e spesso sono il ricordo più impressionante che i turisti riportano da una visita nel paese del mitico Egeo e del "biblico" Ararat. Dalle televisioni di stato e private i cadaveri dei caduti della guerriglia, uomini e donne, vengono irrisi ed esibiti per interminabili minuti; forse questo è voluto dal regime per demoralizzare il movimento kurdo, o per menar vanto di fronte all'opinione pubblica, ma certamente non depone a favore della civiltà dei media (anche molti giornali, naturalmente, non rispar­miano immagini di morte e toni di estrema violenza). Ancora più sconvolgente, la risposta delle somme autorità dello stato agli

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eccessi di barbarie. Una rete televisiva nel. gennaio 1993, aveva mostrato alcuni soldati turchi che stupravano i cadaveri delle guerrigliere uccise. Era la prima volta che il fatto veniva a cono­scenza dell'opinione pubblica (il tema sarebbe poi stato ripreso più volte in seguito, con immagini e articoli: ad esempio la rivista, “Gercek” del 13 agosto 1993 pubblicava le ammissioni e le mo­tivazioni di un soldato) e ne nacque una polemica. Ben presto giunse l’autorevole opinione del presidente della Repubblica: in tono bonario e minimalista, commentò che occorreva compren­dere e scusare i militari i quali, poiché «hanno soltanto 22 o 23 anni, non sanno controllarsi». Il più grave problema della Turchia è proprio l’abitudine al sadismo e alla crudeltà più sfrenata diffuso tra le forze dell'esercito e della sicurezza, funzionari compresi. Una vocazione non censurata e di fatto approvata, dalle autorità civili. Nei resoconti delle associazioni umanitarie, si trovano esempi infiniti di atrocità commesse anche nei confronti di neonati, di bambine e bambini torturati a  morte e/o stuprati di fronte alla madre, di donne incinte, violentate e uccise. La grande maggio­ranza delle vittime è kurda, ma la violenza investe chiunque finisca tra le mani della forza pubblica.

Un problema gravissimo da affrontare è l’assistenza medica e psicologica dei torturati. I centri di assistenza per le vittime della tortura, aperti a Diyarbakir e in altre città kurde a partire dal 1995, dopo una lunga serie di persecuzioni sono stati chiusi dalle autorità turche, forse definitivamente, in occasione del Nawroz del 1999. Ed altrettanto importante e urgente sarebbe la rieducazione dei torturatori, e l’avvio di una formazione delle forze dell'ordine che consenta di superare uno stato di barbarie di cui le autorità turche non sembrano, invece, preoccuparsi. Anzi, lo incentivano con taglie sui militanti del PKK e con l'impunita di torturatori e assassini. Su questo tema, Amnesty International il 20 aprile 1999 ha presentato alla Commissione per i diritti umani del Parlamento europeo il rapporto “Turchia, il diritto di controllare, investigare, perseguire”, in cui denuncia «il blando atteggiamento dei diversi governi turchi di fronte alla tortura, i maltrattamenti, la morte durante il fermo e la "scomparsa" di persone tra le mani degli ufficiali della sicurezza». «Le autorità – dice AI – hanno massic­ciamente evitato di compiere il loro dovere di investigare [...] Questo alimenta il circolo vizioso dell'impunità ... » e cita il caso recente, di un tassista, vittima innocente della tortura, che si è suicidato perché disperato di non,ottenere giustizia. AI denuncia un clima generale di paura, l’intimidazione di testimoni, la sop­pressione delle prove medico-legali e la disposizione di legge che consente di tenere, per, quattro giorni in totale isolamento e ben­date, le persone arrestate, alla mercé dei torturatori. In concreto, la detenzione in incommunicado arriva fino a 10-15 giorni durante i quali i fermati, sottoposti a atroci torture, possono confessare qualunque cosa, implicare chiunque, alimentando una terribile spirale di ingiustizie; oppure muoiono, magari per "suicidio" o scompaiono. I casi di procedimenti contro, le forze di polizia – continua il rapporto – sono rarissimi,  e si concludono, secondo le statistiche ufficiali, con una percentuale altissima di assoluzioni; tra 1'87,5% e il 96,7%. Perfino nei casi più odiosi, di torture di bambini, i responsabili sono condannati, e soltanto in casi ecce­zionali, a leggere pene pecuniarie, e rimangono in servizio attivo. Le vittime, i loro familiari, gli attivisti dei diritti.umani che prote­stano contro questa prassi vengono maltrattati e minacciati, e lo stesso accade a quei medici che registrano accuratamente le ferite dovute alle torture».

Il rapporto annuale 1999 di AI relativo all'anno 1998, riferisce tra l’altro di numerosi e ben documentati casi di tortura, a opera sia della polizia sia, più estesamente, della gendarmeria. AI registra in particolare la diffusione di violenze sessuali su donne e uomini e di tortura di bambini.

Nel 1999 la situazione non cambia. La barbarie del regime tenta di annientare ogni voce democratica; in particolare la legittima opposizione di partiti e sindacati legalmente costituiti.

Il segretario generale di IHD (Associazione per i diritti umani

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in Turchia) in una conferenza stampa del 24 febbraio ha dichiara­to che nella settimana tra il 16 e il 24 febbraio, in seguito al sequestro di Ocalan a Nairobi, sono state incarcerate 3.369 perso­ne, quasi tutte kurde; gli arresti più numerosi sono avvenuti in Kurdistan. A Diyarbakir gli arrestati sono prevalentemente sinda­calisti e ingegneri; ma dovunque i più colpiti sono membri e funzionari del  partito legale HADEP (un partito democratico pacifista). Molti degli arrestati hanno subito torture feroci, documentate dai medici di IHD; a Diyarbakir un ragazzo diciottenne è morto sotto le bastonate della polizia durante l’incursione nel­l’ufficio di HADEP. A Koceli un altro giovane è morto per i maltrattamenti subiti nella stazione di polizia.

Un editoriale di “Hurriyet” del 15 aprile e un servizio di «Milliyet» del 16 aprile descrivono alcuni degli episodi che hanno caratterizzato la campagna elettorale del partito HADEP. Per esempio: HADEP aveva avuto l’autorizzazione di tenere un comi­zio a Diyarbakir, poi annullato all'ultimo momento - spiegano i due giornali - e la folla si era ugualmente radunata in attesa dell'evento. Che cosa c' è di grave? si chiede «Hurriyet». «Eppu­re, con il pretesto di disperdere la folla, la si massacra senza vergogna. I cittadini si abbattono sotto i colpi delle clave di legno e di ferro. II sangue cola a fiotti. Scene di un linciaggio che ricorda il Medioevo. Una cosa che va al di là diogni comprensione e che raggiunge l'insopportabilità. A vedere immagini del genere ci si vergogna di essere uomini ... ». «Milliyet», dopo aver descritto «le manganellate, i calci, i pugni, i bastoni che si alzano e discendono a spaccare le teste», commenta: «Le regole democratiche non vengono applicate a un partito che è autorizzato a partecipare alle elezioni». E si chiede: «E quale è il messaggio? "Voi non avete diritto di vivere in democrazia, fate meglio ad andare in monta­gna". E’ questo che si vuole ottenere?».

L'organismo più importante del Consiglio d'Europa, il comita­to ministeriale composto dai ministri degli esteri di 41 paesi ha emanato a Strasburgo il 9 giugno 1999 la risoluzione ad interim

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DH (99) 434 che critica la Turchia: è la prima volta che il comitato si esprime con tanta durezza contro un paese membro. La risolu­zione ricorda le sentenze di condanna emanate negli ultimi due anni dal Tribunale europeo contro Ankara per casi collegati alla guerra in Kurdistan, dà atto della perdurante violazione, da parte dello stato turco, dei diritti fondamentali, come il diritto alla vita, alla dignità e integrità delle persone (per la pratica della tortura), alla proprietà e alla casa (per la distruzione di case e villaggi) e il diritto di ottenere giustizia (anch'esso negato alle vittime del terrore di stato). Constatando che negli ultimi due anni non si sono riscontrati miglioramenti, la risoluzione sollecita il governo turco a prendere le necessarie misure per fermare l’uso della tortura, la distruzione delle proprietà, gli omicidi extragiudiziari e il fenomeno degli "scomparsi" (AFP, 10 giugno 1999).

Il mancato riconoscimento da parte internazionale dello stato di guerra ha come conseguenza il dilagare di ogni sorta di atrocità a opera delle forze turche nei confronti sia dei civili, sia dei combattenti kurdi.

Dal 1995 il PKK ha aderito alla Convenzione di Ginevra; i soldati turchi catturati sono considerati prigionieri di guerra e di solito liberati e i kurdi, quantomeno dal 1995, cercano di evitare il coinvolgimento dei civili nel conflitto; il PKK si è appellato in ogni sede internazionale per ottenere che la Turchia ponga fine al reclutamento dei guardiani dei villaggi, motivo principale del coinvolgimento di civili nelle operazioni belliche. Risoluzioni del Parlamento europeo e del Consiglio d'Europa invitano Ankara a porre fine al micidiale sistema dei "guardiani dei villaggi” [[[NOTA: Il regime arma e finanzia uomini dei villaggi, per contrastare il PKK. Cfr. il cap. 5, p. 106]]], ma senza risultati. La Turchia non aderisce alla Convenzione di Gine­vra; i guerriglieri intercettati o sorpresi o catturati vengono uccisi. Molto spesso si tratta di ragazze e ragazzi giovanissimi, in qualche, caso fermati e eliminati prima ancora che avessero raggiunto

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un'unita di guerriglia: sono terroristi. Se non vengono ammazzati subito, si procede all'esecuzione nelle caserme in cui vengono imprigionati: è stato il caso, per esempio, della tedesca Andrea Wolf, uccisa in una caserma di Van nell'aprile 1999. Per evitare torture e stupri, racconta la guerrigliera Zaleh (che è priva delle dita delle mani, congelate in montagna e amputate), le donne combattenti tengono per sé l’ultima granata.

Di queste esecuzioni sommarie come pure delle migliaia di assassinati a opera delle squadre speciali governative e di "scom­parsi" in detenzione bisognerebbe tener conto quando si afferma che in Turchia la pena di morte non è applicata dal 1984.

«La guerra e la sua ferocia segnano profondamente l’intero sistema – osserva Haluk Gerger [...] Questa guerra viene soste­nuta senza alcun rispetto dei principi morali o legali di lotta. Non vi è alcuna ragionevole proporzione tra lo scopo e il carattere delle ostilità da un lato e l’entità della forza e il grado di violenza dall'altro [...] Astraendosi dalle realtà politiche e sociali, la guerra degenera inevitabilmente in una violenza senza fine, in un insen­sato terrore vendicativo, la cui ferocia mette in crisi il vero signi­ficato della guerra stessa. Non è un proseguimento della politica con altri mezzi, ma una precipitazione genocida. [...] Un ordine violento e militarista aveva bisogno di un popolo violento e mili­tarista, e 1' è1ite dominante ha usato tutti i mezzi a sua disposizione per riprodurre i valori sciovinisti nella vita quotidiana, nelle fami­glie, nelle moschee, nelle scuole e nelle caserme. I costi morali e culturali di questa campagna rendono, forse, il popolo turco la vittima principale della guerra».

Il politologo turco sottolinea inoltre la responsabilità delle democrazie occidentali: «Il regime è del tutto consapevole di poter sostenere la sua capacità bellica soltanto con l'afflusso ininterrotto degli aiuti economici e militari da parte degli alleati occidentali, Stati Uniti e Germania prima di tutti. Farà tutto quanto è in suo potere per assicurarsi la complicità occidentale nei suo progetto di morte».

Secondo Gerger: «Ogni giorno, nella loro lotta, i kurdi impri­mono nella loro esistenza sociale gli alti ideali che l’umanità ha a cuore, a dispetto di tutti i riprovevoli esperimenti del XX secolo. Di contro a tutti gli orrori, e senza dubbio rimarchevole che i kurdi non abbiano mai tradito il sincero sentimento di fraternità nei confronti dei turchi e abbiano perseverato nella richiesta di un canale democratico per potersi pacificamente esprimere. Perciò i kurdi del nord si identificano bene per un ruolo salvifico e rifor­matore in una qualsiasi prospettiva di cambiamento futuro» [[[NOTA: I brani riportati sono tratti dal saggio “La crisi in Turchia”, in «Kurdistan Report», nr. 2, giugno 1999]]].

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3. Guerra contro le idee

 

Musa Anter e la strage dei democratici

 

Nel 1992 Musa Anter era un uomo di 74 anni pieno di vitalità che metteva il suo talento di scrittore al servizio della storia kurda e del giornalismo militante. Stava scrivendo le sue “Memorie”, un affresco degli eventi e dei personaggi conosciuti in oltre mezzo secolo sullo scenario del Medio Oriente e collaborava con i gior­nali «Ozgur gundem» e «Yeni ulke», perseguitatissimi organi di informazione sulla guerra in Kurdistan. Il 20 settembre di quel­l’anno si trovava a Diyarbakir per partecipare a un festival d'arte. Venne ammazzato per strada da un sicario. Quattro colpi di pistola hanno insanguinato i suoi capelli bianchi e spento per sempre la luce del suo sguardo attento ai grandi eventi come ai piccoli fatti della vita quotidiana.

Per la sua fama, la sua popolarità e il suo ruolo di esponente di primo piano della cultura in Turchia, Musa Anter è il simbolo della "strage dei democratici", scientificamente perpetrata da Ankara per annientare la socie civile del Kurdistan, impegnata a contrastare il terrore di stato armata soltanto della propria voce. Dall'inizio degli anni '90 cadono sotto il piombo di sicari o di squadroni della morte, a centinaia, giornalisti, artisti, attivisti per i diritti umani, sindacalisti, avvocati che hanno assunto la difesa dei prigionieri politici, medici che hanno curato le vittime della repressione di pacifiche manifestazioni e della tortura, candidati

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alle elezioni e semplici militanti di partiti democratici legali che sostengono la necessita di una soluzione di pace alla questione kurda.

Per continuare indisturbata nella guerra a oltranza contro la società civile, nel 1990 la Turchia comunica al Consiglio d'Europa di cui fa parte di aver sospeso l'applicazione, della Convenzione europea per i diritti umani nelle province dell'est, da tre anni sottoposte allo "stato di emergenza".

Nel 1992 operano in Kurdistan 100 mila uomini. C' è l’esercito, con migliaia di blindati, carri armati, artiglieria leggera e pesante, elicotteri da guerra e aviazione, ci sono la gendarmeria e la polizia, ci sono i servizi segreti e le squadre speciali Jitem, i terribili commando degli anni '60 e '70, tornati in funzione dal 1987. Le cellule della kontra-guerilla sono autorizzate a compiere tutte le operazioni della cosiddetta "guerra speciale", di cui in Turchia esiste un apposito dipartimento, e cioè a usare «Metodi speciali e tutte le attività clandestine», tra cui «assassini, attentati con esplosivi, rapine a mano armata, torture, attacchi, rapimenti, minacce, provocazioni, addestramento di miliziani, presa di ostaggi, incen­di, sabotaggi, propaganda, disinformazione, violenza; estorsio­ne»: così dispone infatti la direttiva ST 31/15 per operazioni contro forze irregglari, scoperta e pubblicata dal quotidiano «Ozgur gundem». Il Dipartimento della guerra speciale era nato come braccio armato di Gladyo, presente ad Ankara dall'anno in cui la Turchia entrò nella NATO, il 1952, con attività e bilanci segreti, sottratti al controllo del governo e del Parlamento; l’esistenza di Gladyo venne resa nota anche in Turchia nel 1990. I suoi “metodi speciali” erano in origine destinati a contrastare un'even­tuale aggressione esterna da parte dell'Unione Sovietica, ma un accordo del 1959 tra Stati Uniti e Turchia aveva esteso la funzione del Dipartimento alla "ribellione interna". 

La rivelazione dell'esistenza di Gladyo pone fine ufficialmente a questa struttura ma non al Dipartimento della guerra speciale, anzi all'organizzazione segreta del terrore di stato si aggiungono a meta degli anni '90 le squadre "per le operazioni speciali" (Ozal tim) sotto il controllo tripartito della polizia, dei servizi segreti (MIT) e dell'esercito, che operano in tutta la Turchia nell'interes­se di membri del governo e in collaborazione con la mafia. Nei primi anni '90 per il terrore di stato viene utilizzata la copertura di una formazione che si presenta come integralista islamica, chiamata Hezibollah (Hezi bo Allah, partito di Dio) e che non ha nulla a che fare con l’omonima libanese. La kontra-guerrilla utiliz­za ampiamente infiltrati, spie e provocatori, e viene ulteriormente potenziata, dal 1995, con i superspecializzati "Rambo", così chia­mati perché addestrati da esperti americani, che operano in divise nere e a volto coperto, il che vale loro anche il soprannome di "insetti neri". A fianco dello stato  sono poi schierate le guardie dei villaggi, generosamente armate e retribuite. I sindaci che rifiutano di schierarsi, e tra essi vi sono alcune persone molto anziane, affrontano la morte tra le mani dei torturatori, i giovani spesso se ne vanno in montagna a raggiungere i partigiani kurdi. Collabo­rano con il governo alcuni dei più grandi proprietari terrieri del Kurdistan, ancora organizzati secondo la tradizionale struttura delle khal e delle ashiret; le khal sono clan familiari molto allargati, sotto la cui "protezione" possono entrare anche estranei; ricono­scono l'autorità del capo, in pace e in guerra, e sono dotate di piccoli eserciti autonomi, mentre 1'ashiret è una federazione di khal. Il regime turco, che ha negato l’esistenza dei kurdi, si è tuttavia servito proprio delle strutture sociali arcaiche di questo popolo per dividerlo allo scopo di annientarlo e, nello stesso tempo, per tenerlo in condizioni di arretratezza e di miseria, lasciando la sopravvivenza dei contadini kurdi nelle mani dei grandi latifondisti. Per questo, tra i punti più significativi del programma del PKK c' è 1'evoluzione sociale e culturale del popo­lo kurdo, imperniata sulla valorizzazione del ruolo della donna, e la liberazione dei lavoratori dallo sfruttamento dei signori delle terre. Anche per questo il PKK ha un seguito di massa e conta sull'impegno di un gran numero di donne nella resistenza democratica

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e sull'eccezionale spirito di sacrificio di cinquemila guerri­gliere.

Dotando alcuni latifondisti kurdi di grandi quantità di armi e di denaro per le funzioni di guardie di villaggio, Ankara ha sfruttato e rilanciato un'istituzione ormai anacronistica, innescando la miccia della guerra civile in Kurdistan, ha bloccato, 1'evoluzione socia­le, economica, culturale di una parte della sua popolazione, quella sottomessa ai capiclan collaborazionisti; i villaggi e le città i cui responsabili rifiutavano il ruolo di guardiani sono stati distrutti o assediati dal blocco di viveri e medicinali.

I clan collaborazionisti, non numerosi ma abbastanza potenti, sono stati ulteriormente rafforzati dall'ingente quantita di denaro con cui il governo ha comprato i loro servizi. La ricchezza ha consentito ad alcuni capi clan di arruolare mercenari di ogni sorta, non solo per colmare i vuoti lasciati da quanti preferivano il PKK ma anche per ampliare il proprio potere e meglio svolgere attività criminose. Il fiume di denaro affluito alle casse dei latifondisti ha consentito loro di inserirsi nel lucroso affare del traffico di droga, facilitato dalla posizione geografica  delle terre dei clan e incenti­vato dalle autorità turche.

Prima della denuncia ufficiale del diretto coinvolgimento dello stato nella lunga catena di attentati contro esponenti della società civile kurda, siano essi personalità famose come Musa Anter o semplici cittadini impegnati per la democrazia (spesso sterminati con membri della loro famiglia) il regime, attraverso le dichiara­zioni dei suoi vertici militari e civili raccolte ed enfatizzate dai principali media, accusava degli assassini la fantomatica formazione Hezibollah. Si supponeva che questi integralisti religiosi si fossero impegnati nel contrastare con le armi il PKK, laico e “comunista”; ma senza trascurare di attribuire in qualche caso gli omicidi politici direttamente al PKK, per non tradire la prassi corrente, di addebitare a questa organizzazione qualunque male alberghi sotto il cielo di Turchia. Un'abitudine in cui origine e scopo si identificano: nasce dal principio, sancito per legge, che

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chiunque metta in dubbio l’esistenza di un'unica identità naziona­le, è colpevole di terrorismo, quindi è membro del PKK, quindi può essere vittima di sanguinosi "regolamenti di conti" tra complici della medesima attività criminosa. Lo scopo è uguale alla sua matrice: assimilare al terrorismo, nei confronti dell'opinione pub­blica interna e internazionale, ogni manifestazione di pensiero democratico.

A sua volta, il PKK spesso individua e quindi colpisce gli agenti degli squadroni della morte, gli infiltrati, i collaborazionisti e attacca i villaggi filogovernativi con operazioni militari che, in alcuni casi denunciati da AI, hanno coinvolto i civili causando la morte di donne e bambini. A differenza del governo, il quale agisce (o tenta di agire) sotto copertura, la guerriglia rivendica le proprie operazioni e ammette anche la propria responsabilità nelle offensive che non hanno obiettivi militari: quella contro gli insegnanti turchi e quella (incruenta ma intimidatoria) contro la stampa di regime, avvenute tra gli ultimi mesi del 1993 e i primi mesi del 1994. Gli insegnanti turchi insediati dal governo in sostituzione dei kurdi, secondo il PKK non soltanto servono a indottrinare i bambini con i principi del razzismo turco, ma compiono soprattutto opera di spionaggio, interrogando minu­ziosamente gli alunni sulle attività e le idee delle loro famiglie e riferendo quindi alle autorità. Contro di loro la guerriglia aveva agito prima con intimidazioni mirate ad allontanarli e poi con alcuni attentati mortali. Inoltre, nel corso del 1994 la resistenza kurda aveva bloccato la distribuzione in Kurdistan dei giornali considerati megafono del regime. L’offensiva era una reazione agli assassini dei giornalisti e dei collaboratori del quotidiano libero «Ozgur gundem», compiuti dalle forze speciali governative.

Le forze governative, invece, agiscono nell'ombra, nell'ambito delle loro "legittime" attività "speciali" di provocazione e strage e spesso tentano di attribuire al PKK la colpa del terrorismo di stato, nell'intento di alienargli il sostegno popolare e di screditarlo di fronte all'opinione pubblica interna e internazionale.

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Tra queste operazioni, per esempio, c'è l'attacco a un autobus, avvenuto nel 1993, che costò la vita ai viaggiatori. Una commissione di esperti internazionali, anche in questo caso, aveva ribaltato la responsabilità attribuendola alle forze armate turche dopo aver appurato, tra l'altro, che il veicolo era stato mitragliato dall'alto, con raffiche sparate dagli elicotteri da guerra, facenti parte ovvia­mente dell'armamentario delle fruppe governative e non di quello della guerriglia.

Per individuare la matrice della strage dei democratici, nono­stante gli sforzi della propaganda governativa, non vi è necessità di indagini internazionali. Anche prima che l”organizzazione del terrore di stato fosse scoperta e denunciata da un'indagine ufficia­le (alla fine del 1996 e all'inizio del 1997, come si vedrà in seguito) è sempre stata evidente la precisa strategia del governo, mirata a eliminare la componente democratica del movimento kurdo e ad annientare la sua rappresentatività culturale. Ne è prova l'impu­nita degli esecutori, nonostante il pugno di ferro dello stato di emergenza; in molti casi, tra i quali quello di Musa Anter, gli omicidi vengono commessi con il visibile appoggio di veicoli della polizia, in altri, le vittime scompaiono mentre sono scortate dagli agenti nel tragitto dalla stazione di polizia al tribunale o sono prelevate da casa da rappresentanti della legge, e in seguito si trovano i loro cadaveri con segni di torture e mutilazioni. Che si tratti di esecuzioni extragiudiziarie, una efficace scorciatoia della pena di morte, inapplicabile nei confronti di persone che potreb­bero essere incarcerate ma non impiccate per reati di opinione, è sempre stato chiaro sia all'interno della Turchia sia all'estero. Anche per questi crimini piovvero e continuano a piovere sul governo turco condanne internazionali. E circa sette anni dopo, alla fine del 1998, un editoriale del quotidiano «Turkish Daily News» riconosceva che I'assassinio di Musa Anter era parte inte­grante della strategia di guerra governativa.

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Lo strillone di Nusaybin. Storia tragica di un quotidiano

 

Nusaybin è una città antica, menzionata in iscrizioni assire di oltre tre millenni fa, che nel V secolo era, insieme a Edessa (Urfa), il centro della religione nestoriana. In questi luoghi, al confine siriano, d'inverno, la notte scende molto presto. Sono le quattro del pomeriggio ed è già buio. Un ragazzo disabile percorre la via più frequentata di Nusaybin spingendo una vecchia sedia a rotel­le. In grembo, ha un fascio di giornali: offre ai passanti «Ozgur gundem» (Agenda libera), il quotidiano kurdo di informazione sulla guerra. Lo strillone si chiama Lockman Guzman ed è soddi­sfatto del suo lavoro, che gli consente di servire la causa kurda e di guadagnare qualche moneta dagli avventori che entrano e escono da una casa da te, e dai passanti, molto propensi a leggere l’unica fonte di informazione alternativa alla stampa di regime. I conducenti delle poche vetture in transito rallentano vedendo lo strillone che alza in alto, verso la luce livida dei neon commerciali e dei deboli lampioni, una copia del prezioso quotidiano per richiamare la loro attenzione, e sostano pochi secondi per com­prarlo. Una Renault bianca si ferma al margine della strada. Ne scendono tre uomini; impugnano armi automatiche, aprono il fuoco. Il fascio di giornali che Lockman teneva appoggiato al petto si imbeve di sangue. I tre sicari ripartono, mentre qualcuno accorre intorno al ragazzo, caduto all'indietro insieme alla carroz­zina. Ma i soccorsi sono inutili. Lockman, crivellato di colpi, è morto stringendo in una mano la copia di «Ozgur gundem» di quel giorno, il 31 dicembre 1992.

«Ozgur gundem» è, indubbiamente, una sfida, che nasce nel pieno della violenza e del terrore di stato. Tutti quelli che lavorano per il giornale conoscono qual è la posta in gioco: la vita stessa. Nel Kurdistan accadono fatti terribili, poco noti a tutto il paese perché la grande stampa tace o si adegua alle versioni di regime. I principali giornali hanno scelto, in quegli anni, di essere il “quarto potere” nell'offensiva contro il popolo kurdo. Esistono

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settimanali e mensili indipendenti e di sinistra, ma sono scarsa­mente diffusi e frequentemente sequestrati o chiusi dalle autorità: in questo modo difficilmente riescono ia incidere nel panorama dell'informazione. Esistono anche periodici kurdi, «2000 e' Do­gru», «Yeni ulke», «Ozgur halk», e “Welat” (quest'ultimo ha, addirittura, il titolo in kurdo). Ma non c' è un quotidiano. Riuscire a crearne uno e a continuarne la pubblicazione è un'impresa di immane difficoltà, e «Ozgur gundem» la tenta, impegnandosi, nei confronti di turchi e kurdi, a riferire ogni giorno la realtà con inchieste e servizi sulle rappresaglie contro città e villaggi, sulla sorte dei desaparecidos, sulla strage dei democratici (nell'anno 1992, sono più di mille le vittime dei presunti Hezibollah, ormai chiamati Hezbi-kontra) sulle torture e sulle vicende della guerra. Al dolore dei parenti delle vittime offre, almeno, il piccolo confor­to dei necrologi, che recano anche le fotografie dei caduti negli attentati e nelle azioni di guerra: un omaggio ai martiri del Kurdi­stan.

Il primo numero di «Ozgur gundem» esce il 31 maggio del 1992. La sede centrale è a Istanbul, con uffici di corrispondenza in varie città e in particolare in ogni capoluogo del Kurdistan. Alla fine di quell'anno, saranno usciti 114 numeri, 48 dei quali confi­scati. I corrispondenti kurdi sono continuamente fermati dalla polizia e malmenati, i loro strumenti di lavoro vengono distrutti,

le abitazioni private e gli uffici, perquisiti e devastati. In sette mesi, tra i redattori e i collaboratori in Kurdistan, tre sono condannati al carcere, altri tre sottoposti a pesanti torture, quattro sono assassinati, un quinto sopravvive all'attentato ma rimane paraliz­zato per sempre; è un ragazzo di 19 anni, studia teatro e letteratura all'università. Sempre in sette mesi, sono assassinati, oltre allo strillone di Nusaybin, i tre distributori di «Ozgur gundem» per le città kurde di Van, Batman, Nusaybin e quelli di altre città sono minacciati di morte; due fratelli di 13 e 15 anni, strilloni a Diyar­bakir, vengono brutalmente picchiati, dieci edicole e due furgoni sono distrutti da incendi appiccati come sempre da ignoti. Multe

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altissime vengono inflitte all'editore, Yasar Kaya, e ai due diretto­ri, contro i quali si aprono procedimenti penali. A proposito degli omicidi, il primo ministro Suleyman Demirel aveva dichiarato: «Questi non sono giornalisti, sono militanti e si ammazzano tra loro».

La stessa sorte tocca a quanti lavorano per i periodici di oppo­sizione, anch'essi perseguitati e infine chiusi: sempre nel 1992, vengono uccisi un giornalista di «Yeni ulke», uno di “Ozgur halk”, uno di «2000 e'Dogru». Non solo. Le forze di polizia falciano anche gli inviati in Kurdistan di alcuni quotidiani (come «Hurriyet» e «Bursa-Gemlik») e della rivista «Gercek» e il foto­grafo di «Sabah», ammazzato sotto gli occhi di colleghi turchi e stranieri mentre, agitando una bandiera bianca, cercava di avvici­narsi a una vittima civile caduta durante le manifestazioni di Nawroz a Cizre.

La decimazione dei giornalisti continua per tutti gli anni '90, e coinvolge, dopo i tragici fatti del Kurdistan, anche chi lavora nell'informazione in tutto il paese, comprese la capitale e Istanbul. Tra i casi più noti, quello della morte sotto le bastonate dei poliziotti di Istanbul del giornalista trentenne Metin Goktepe, nel gennaio 1996. Goktepe era redattore di un giornale turco di sinistra. Ai suoi funerali parteciparono decine di migliaia di per­sone; su impulso della comunità internazionale le autorità turche processarono gli assassini. Nel 1999, il giudizio si conclude con pene massime di sette anni per gli esecutori e con l’assoluzione degli ufficiali responsabili. L'associazione “Reporters sans fron­tières” fa notare («Reuters», 6 maggio 1999) che questa è la stessa giustizia che ha condannato a nove anni di carcere alcuni ragazzini kurdi, per aver rubato qualche dolce in un negozio. Il clima di violenza costringe i giornalisti turchi e kurdi a scelte estreme: l’esillo o la guerriglia, come dimostra la storia tragica di una giornalista, Gurbetelli Ersoz.

Gurbetelli era figlia di uno dei tanti lavoratori immigrati dalla Turchia in Germania. Il padre, che sopportava una durissima

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vita di sacrifici per mantenere la famiglia in Kurdistan, aveva voluto chiamarla con quel nome, che significa "La culla dell'esi­lio". E aveva un sogno: riuscire a risparmiare tanto da permet­tere a Gurbetelli e alla sorella di completare gli studi superiori. Alla scuola elementare, Gurbetelli, nata in un villaggio della provincia di Bingol, aveva studiato con difficoltà perché non conosceva il turco; trasferita ad Adana, alle scuole superiori i compagni la deridevano perché ancora non padroneggiava bene, questa lingua; si era quindi impegnata fino a ottenere ottimi risultati. Era all'Università di Cukurova nel 1988, quando sentì per caso un compagno commentare che Saddam Hussein, il quale nel marzo di quell'anno aveva sterminato con bombarda­menti chimici gli abitanti di Halabja, avrebbe fatto bene a com­pletare l’opera eliminando tutti gli «sporchi kurdi». Reagì a quelle parole, si dichiarò kurda. Da allora cominciò a essere sorvegliata. Due anni più tardi, quando era assistente all'università, si trovò ad aiutare alcuni studenti ricercati dalla polizia per una manifestazione. Poco dopo, nel dicembre 1990, venne arre­stata con l’accusa di appartenere al PKK, organizzazione con la quale non aveva mai avuto contatti. Per dieci giorni resistette alle torture ma quando venne minacciata di stupro, firmò la confessione. Venne condannata a dieci anni e ne scontò due, grazie a un'organizzazione di avvocati britannici intervenuti al­ suo processo, i quali dimostrarono che l’unica prova a carico di Gurbetelli era la confessione, estorta sotto tortura e con minac­ce. Uscita dal carcere nel 1992 Gurbetelli, che nei due anni trascorsi in prigione aveva deciso di battersi per i diritti umani di kurdi e turchi, entrò nella redazione di «Ozgur gundem» a Istanbul e in seguito ne diventò la direttrice.

Il 10 dicembre del 1993, nella Giornata internazionale per i diritti umani (le autorità turche amano simili coincidenze) gli uffici di «Ozgur gundem» di tutto il paese sono quasi contem­poraneamente invasi e devastati dalla polizia, che arresta 107 persone tra redattori e impiegati, compresa Gurbetelli.

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Durante la detenzione, la giovane direttrice subisce di nuovo torture e violenze sessuali. Al processo che si apre il 14 giugno del 1994 è assistita anche da avvocati europei. La difesa dimostra che non ci sono prove della sua appartenenza a un'organizzazione illega­le (il PKK). L'imputata è rilasciata. Ma non è libera: durante il processo era stata tenuta d'occhio da uno degli ufficiali di poli­zia che, durante le sedute di tortura, le avevano assicurato che l'avrebbero rintracciata e uccisa se fosse stata rimessa in libertà. Gurbetelli potrebbe fuggire, esiliandosi in Germania. Ma vuole continuare la sua lotta. In Turchia, però, sa di essere braccata dalla polizia, le minacce equivalgono a una condanna a morte "extragiudiziaria". Non le resta altra scelta che arruolarsi nella resistenza. La ricercatrice universitaria che aveva deciso di bat­tersi per i diritti umani nella redazione di «Ozgur gundem» muore in combattimento a 32 anni, nell'autunno del 1997 sulle montagne del Kurdistan.

La scelta dell'opposizione kurda e turca di combattere con le armi dell'informazione è una scelta di civiltà portata avanti con coraggio e determinazione nella  consapevolezza dell'altissimo rischio. «Ozgur gundem» dopo un e mezzo di travagliatissima esistenza fu costretto a chiudere, Il suo editore Yasar Kaya nel marzo 1994 stava per partire, per Bruxelles, dove era invitato a una conferenza internazionale per la pace in Kurdistan, quando venne avvertito che era stato spiccato contro di lui un nuovo mandato di cattura. Anticipando la partenza e – di pochi minuti – gli agenti che andavano ad arrestarlo, saltò su un motoscafo attraccato al porto di Istanbul e ottenne di essere trasportato in Grecia. Rimase a Bruxelles, dove l’anno seguente venne eletto presidente del Parlamento kurdo in esilio.

L'esperienza di «Ozgur gundem» non è finita. Dopo la sua forzata chiusura, nascono e muoiono altri,quotidiani che ne sono gli eredi e che portano tutti nel titolo la parola ‘Ozgur’: «Ozgur

ulke» (Libero cammino), «Ozgur jian» (Vita libera)... Tutti perse­guitati, tutti prima o poi costretti a chiudere. Rimane, perché

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pubblicato in Germania (in turco e in kurdo) «Ozgur politika», anch'esso figlio ideale di quel primo incredibile esperimento nato il 31 maggio del 1992.
Il pilastro giuridico su cui si reggono le accuse ai giornalisti, anche a quelli di testate straniere, arrestati e incarcerati a decine ogni anno,
è I'art. 8 della legge nr. 3713 del 1991: «Sono vietati ogni propaganda scritta o verbale, ogni riunione, manifestazione, corteo, indirizzati contro l’indivisibile unità della nazione e del territorio della Repubblica Turca, qualunque ne sia l’idea o lo scopo». In questo modo può essere bloccata sul nascere ogni manifestazione culturale e democratica, che si riferisca ahche lon­tanamente all'esistenza di un’identità diversa da quella turca.

La legge 3713 è utilissima per sostenere l’incrollabile, "convinzione" espressa dalle autorità militari e civili con il ritornello: «Non esiste un problema dell'est, esiste un problema di terrori­smo, e noi lo schiacceremo». E’ arduo collocare nell'ambito del terrorismo chi usa per esprimersi la parola e la penna e non il mitragliatore o le bombe, ma nell'universo assurdo dello sciovini­smo turco l'impresa riesce. Di conseguenza, sono "giustificati" gli omicidi di intellettuali-terroristi, come Musa Anter e i tanti gior­nalisti eliminati. E i nomi degli assassini, qualora emergano, sono protetti: l’art. 7 della stessa legge punisce la stampa che riveli l’identità di appartenenti alle forze «che combattono  il terrori­smo», anche se si tratta di criminali responsabili di reati comuni, di torturatori e sicari, ovunque essi abbiano compiuto le loro imprese (quindi anche all'estero). Se non vengono sbrigativamen­te ammazzati dagli agenti del contro-terrorismo, giornalisti, autori e editori, a migliaia, sono incriminati per appartenenza a organiz­zazioni illegali o per sostegno al terrorismo, o per attentato all'indivisibile unità della nazione, o per propaganda separatista e giudicati dai famigerati tribunali per la sicurezza dello stato. Il “Committee to Protect Journalists” (CPJ) con sede a New York, i cui rapporti sono considerati i più completi e autorevoli in mate­ria, ha pubblicato il 25 marzo 1999 il suo dodicesimo rapporto,

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“Attacks on the Press in 1998” [[[NOTA: Pubblicato anche Italia: “Committee to Protect Journalists - Osservatorio internazio­nale sulla libertà di informazione”, “Attacchi all'informazione nel 1998”, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999. Della Turchia si parla alle pp. 46-58 (27 giornalisti detenuti), 60-61, 107-108]]]: per il quinto anno consecutivo, la Turchia risulta al primo posto nel mondo per la persecuzione dei giornalisti, di solito incriminati per reportage sulla guerra in Kur­distan.

 

Yasar Kemal e la cultura imprigionata

 

Yasar Kemal, l'autore più rappresentativo della letteratura tur­ca contemporanea, tradotto in tutto il mondo, è nato a Cukurova in Cilicia, da una famiglia kurda originaria di Van, la città sul lago, che fu il centro dell'antichissimo regno di Urartu. Dalla cultura kurda ha ereditato la musicalità epica e lirica delle millenarie ‘chanson de gestes’ che aveva ascoltato da bambino dai bardi della sua, terra

e che fa rivivere di libro in libro. Nelle sue opere più note, un crogiolo di etnografia e folklore, magie d'oriente, forte senso della natura e del sovrannaturale, gli eroi sono ribelli, giovani del popolo in lotta contro il potere feudale o ottomano. Kemal si autodefinisce “Un ponte tra Mesopotamia e Anatolia”: le sue opere scaturiscono dalla fervida cultura kurda della biblica Mesopotamia dei monti e delle acque, ma ha sempre dovuto scrivere in turco; nella sintesi tra fantasia e forma si incontrano le due componenti principali del paese, e lo scrittore è diventato il mito letterario di Turchia. Yasar Kemal ha fama di essere non una pecora nera, ma un leone, il leone nero d'Anatolia, per la forza del suo spirito e per l'impeto di una vita avventurosa, segnata fin dai primi anni da turbolenze e ribellioni. A tre anni perde un occhio per le botte di uno zio a cui si era fermamente  ribellato (porta gli occhiali neri per nascondere l'orbita vuota), a quattro anni è con

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il padre in una moschea, quando questi viene pugnalato, a 12 anni percorre a cavallo le montagne, tra contrabbandieri e ribelli. A 17 finisce in carcere per le sue simpatie comuniste (negli anni '60 era membro del TYP, il partito operaio disciolto nel 1972 per separa­tismo, in seguito si definì "gramsciano"), e da allora il suo braccio di ferro con le autorità diventa una vera saga: subisce altri processi per i suoi libri e per le sue idee, è imprigionato e torturato, sopravvive al fosco periodo tra gli anni '70 e '80 esiliandosi in Svezia. Ma niente ferma la sua attività e il successo dei suoi romanzi. Negli anni '90 è protagonista di una serie di processi per reati d'opinione: all'imponente scrittore dai capelli bianchi l’età ed il successo non hanno tolto affatto la voglia di combattere. In un articolo pubblicato dalla rivista tedesca «Der Spiegel», a meta del 1994, descrive vigorosamente la repressione turca: «...Come un uragano che abbatte ogni cosa al suo passaggio, il potere repubblicano ha soffiato con violenza sull'Anatolia. Come ha potuto sopportare, la popolazione di Turchia, tanta brutalità e tortura, tanta miseria e carestia per oltre settant'anni?». E si indigna per la sporca guerra, per i villaggi bruciati, per la moltitudine di profughi in nera miseria, per i massacri, per gli anni di carcere inflitti ai deputati democratici del Kurdistan, fino a concludere affermando ­che all'albore del XXI secolo non si possono rifiutare i diritti umani a nessun popolo, a nessun gruppo etnico: «La Repubblica Turca non deve entrare nel XXI secolo portando su di sé, la maledizione di questa guerra». E ad Amnesty International dice: «Appelliamoci a tutto il mondo perché ognuno faccia quello che può per salvare il presente e l’avvenire della Turchia. Altrimenti noi saremo umiliati in seno all'umanità fino all'Apocalisse». Per l’articolo pubblicato da «Der Spiegel» contro il mito letterario del paese si apre un procedimento penale, concluso nel maggio 1995 con la condanna a venti mesi di carcere e la sospensione della pena.

Ma poco prima del processo Kemal ha già commesso un nuovo crimine: ha collaborato, insieme ad altri intellettuali turchi e kurdi, al libro “La libertà d'espressione in Turchia”, confiscato il giorno successivo alla pubblicazione. Altro processo, nel marzo 1996, per «Incitazione all'odio e propaganda separatista» e altra condanna a 20 mesi. Yasar Kemal rimane libero con la condizio­nale; i giudici forse temono lo scalpore che susciterebbe nel mondo il vederlo dietro le sbarre e gli lasciano un’ultima oppor­tunità; a patto che stia tranquillo per cinque anni. Yasar Kemal non dimostra però alcuna volontà di ravvedersi: «Mi processano perché voglio che la guerra finisca. Combatterò fino alla morte, per oppormi a questa guerra. Più di tre milioni e mezzo di persone sono state sradicate dalle loro terra e ora, per mangiare, vanno cercando rifiuti nella spazzatura» aveva dichiarato lo scrittore, allora settantaduenne. E in aula, si era rivolto severamente ai gludici:, «Mettetemi pure in carcere, se vi va. Non siete voi che giudicate me, sono io che vi condanno».

Poco dopo, ritorna a combattere. Per mesi, a partire dal maggio di quell'anno, i dodicimila prigionieri politici (molti per reati d'opinione, e in maggioranza kurdi) portano avanti uno sciopero della fame non soltanto per rivendicare un minimo di umanità nelle famigerate galere di Turchia, ma anche per chiedere la fine dell'atroce guerra in Kurdistan. Tredici detenuti, tra i quali tre giovani donne, muoiono, altri riportano danni irreversibili. L’in­tervento di Yasar Kemal accende i riflettori sulla terribile vicenda, le autorità devono accettare la sua mediazione. Lo scrittore non si risparmia, visita le carceri, mobilita i medici, combatte con il governo. Infine ottiene dal ministro una serie di concessioni che dovrebbero migliorare le condizioni dei detenuti. Sottoscritto solennemente l’accordo, finito il clamore, tutto ritorna come prima e, se possibile, peggio di prima.

A Diyarbakir, in settembre, dieci prigionieri politici muoiono massacrati a colpi di spranga dai carcerieri, altri venti sono grave­mente feriti; sette donne detenute politiche, mentre depongono in tribunale sono aggredite con brutalità dagli agenti; quattro sono ridotte in fin di vita, le altre riportano lesioni inguaribili. Il ministro

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degli,interni che era riuscito a rendere più crudele la già invivibile prigionia dei detenuti politici e che non rispetta l’esito delle trattative - condotte da Kemal spendendo a favore degli scioperanti saggezza e energia, pazienza e determinazione – è Mehmet Agar, noto per la sua brutalità. Poco dopo, come si vedra più avanti, l’incidente di Susurluk [[[NOTA: Cfr. il cap. 5, pp. 85 ss.]]] rivelerà il suo pieno coinvol­gimento nelle operazioni del terrore di stato.

Nell'ottobre del 1997, alla Fiera del libro di Francoforte l'Unione dei librai tedeschi attribuisce a Yasar Kemal il premio della Pace. L'occasione offre lo spunto per un nuovo processo, a causa dell'appello a fermare la guerra ripetuto dallo scrittore nel corso della cerimonia; ad essa partecipa Günter Grass, il quale denuncia la Germania perché continua a fornire alla Turchia armamenti usati contro il popolo kurdo. Invece di tornare in Turchia, dove lo, attende il carcere e «al prossimo passo, 1'eliminazione», come prevede egli stesso, Kemal rimane in Europa per continuare la sua battaglia. Pubblica articoli contro la guerra anche in Italia, dove riceve il premio per la Pace di Assisi e il premio letterario Nonino. Come si è detto, i premi conferiti in gran numero ai più noti intellettuali e politici kurdi e turchi che si battono per la pace in Kurdistan sono considerati da Besikci, che li rifiuta, una panacea per la cattiva coscienza dei governanti occidentali. Per i premi istituzionali si può condividere il pessimismo di Besikci; ma vi sono riconoscimenti che riflettono la buona volontà dei cittadini europei sinceramente solidali con il popolo kurdo, i quali tentano in tal modo di segnalare l’insostenibile tragedia che si svolge in uno stato legato all'Unione Europea e membro della NATO. Queste premiazioni hanno una loro utilità, in quanto consentono di portare alla ribalta dell'opinione pubblica, almeno occasional­mente, il tema della violazione di diritti e della guerra in Turchia. Così, anche il conferimento del premio della Libertà dell'Associa­zione internazionale degli editori (Fiera di Francoforte, ottobre 1998),

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ai turchi Ayse Nur e Ragip Zarakolu ha contribuito a far conoscere la persecuzione delle idee che imperversa in Turchia [[[NOTA: Diversa la situazione per i premi elargiti in Turchia, che non sempre vengono accettati dai destinatari. Nel dicembre del 1998 anche lo scrittore turco Orhan Pamuk rifiutava, come aveva fatto anni prima Yasar Kemal, il premio “Artista di stato” per il quale era stato scelto dal presidente della Repubblica Demirel, motivando il diniego con il suo dissenso nei confronti dell'approccio statale alla questione kurda, la carenza di democra­zia e le violazioni dei diritti umani. Pamuk, 46 anni, è oltre a Kemal l’unico scrittore di Turchia tradotto e conosciuto all'estero]]].

Sposati da vent'anni, cinquantenni e genitori di due figli, Ayse Nur, originaria di Antiochia e Ragip Zarakolu, nato in un isolotto sul mar di Marmara, si erano conosciuti all'università e si erano persi di vista dopo che entrambi erano stati condannati al carcere per la loro militanza a sinistra, dopo il colpo di stato del 1971. Riacquistata la libertà, Ayse Nur nel 1977 fonda una piccola casa editrice, “Belge” (Documenti), della quale ben presto Ragip di­venta collaboratore e poi socio. Determinati a far sentire la voce della cultura repressa, convinti che «soltanto un approccio plura­listico ai vari problemi consenta di superare ristrettezze mentali e fanatismo, dando nello stesso tempo alla maggioranza la possibi­lità di comprendere le minoranze e tutti coloro che sono differen­ti» i coniugi Zarakolu traducono e pubblicano Marx e opere di Gramsci, Sartre, Camus, Pasolini, oltre a saggi di autori turchi, greci, armeni. Dall'inizio degli anni '80, dopo il golpe militare, Ayse Nur, legalmente responsabile della casa editrice, è arrestata oltre trenta volte e per quattro volte finisce in carcere. La casa editrice deve far fronte a pesanti ammende, per alcuni periodi è penalizzata con la chiusura, molti titoli sono sequestrati e distrut­ti. Per contrastare il terrore di stato esploso con la "sporca guerra" in Kurdistan, Ayse Nur e Ragip Zarakolu, insieme a un centinaio di altri intellettuali turchi e kurdi fondano nel 1987 l'Associazione per i diritti umani di Turchia, presieduta, fin dal prinio anno, da, Akin Birdal. E per far capire la questione kurda pubblicano nel 1990 uno del libri dell'autore più incriminato del paese, Ismail Besikci.

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L'opera viene subito sequestrata, le duemila copie sono distrutte, Ayse e condannata a sei mesi di carcere e 1'editrice a una forte ammenda. In risposta, l'editrice “Belge” tra il 1991 e il 1995 pubblica altri tre libri di Besikci, con conseguenze analoghe.

«Basta esprimere delle idee o rivelare certi fatti, e si diventa autori-terroristi o editori-terroristi», commenta Ayse Nur. Gli editori di «Belge» non intendono arrendersi, disposti a continuare tra processi e ammende, ma nel 1993 subiscono un duro colpo. Tra i giornalisti kurdi di «Ozgur gundem», c'è un giovane colla­boratore di “Belge”, il diciannovenne Ferhat Tepe, il quale indaga sulla violenza di stato anche in previsione di un libro di denuncia, voluto dalla casa editrice. Tepe viene rapito e assassinato da una delle squadre del terrore di stato. La sua opera è continuata da un altro giovane giornalista kurdo, che completa le indagini aggiun­gendo anche l’esito della sua inchiesta sull'eliminazione di Tepe e pubblica con “Belge”: «Anatomia di un crimine». Arrestato, l'autore del libro, che aveva documentato tra l'altro come molti dei desa­parecidos fossero stati gettati sulle montagne da elicotteri militari, verrà torturato a morte mentre è trattenuto in custodia in una caserma. Ayse Nur è nuovamente condannata «Per aver screditato le forze armate impegnate nella lotta contro il terrorismo». L’epi­sodio è anche un'ulteriore conferma del diverso trattamento riser­vato per un decennio dalle autorità a dissidenti e pacifisti. I turchi sono perseguitati e incarcerati. I kurdi vengono fisicamente elimi­nati, seguendo la precisa strategia genocida di privare il movimen­to kurdo dei suoi intellettuali attraverso la "strage dei democrati­ci". Tuttavia, dopo la meta degli anni '90, il terrore di stato si estende a tutto il paese e senza distinzioni etniche, come dimostra ad esempio l’attentato contro Akin Birdal. Se si pensa agli sforzi compiuti dalle organizzazioni per i diritti umani (ONU compresa) e dalle istituzioni europee per fermare lo spargimento di sangue nel paese amico e alleato nel Patto atlantico, non si può che constatarne il totale fallimento.

Chiusa ogni possibilità di pubblicare sulla questione kurda,

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Ragip e Ayse Nur Zarakolu pensano che per contrastare il geno­cidlo dei kurdi sia utile ricordare quello degli armeni. Esce così “Il tabù armeno, traduzione di un saggio dello storico francese Yves Ternon. Nuovo sequestro, nuova condanna penale (è il 1995) per Ayse Nur: «Incitazione al terrorismo». Nello stesso periodo, una carica di esplosivo distrugge la casa editrice, da allora scomoda­mente ospitata in uno scantinato del suggestivo quartiere Sultan Ahmet di Istanbul. Questa volta gli editori di “Belge” si difendono, accanitamente. Nel corso delle battaglie giudiziarie (che durano alcuni anni) “Belge” pubblica un altro libro sullo stesso tema, “Geno­cidio” e poi “I quaranta giorni del Mussa Dagh”. Processi e ricorsi si concludono con una vittoria. Le ultime due opere sopravvivono; soltanto la prima, “Il tabù armeno”, rimane proibita. Da oltre ses­sant'anni il famosissimo romanzo di Franz Werfel, che ha girato tutto il mondo, attendeva di essere tradotto e pubblicato in Tur­chia.

Soltanto Ragip Zarakolu ha potuto ritirare il premio a Franco­forte, perché ad Ayse Nur era stato sequestrato il passaporto. Il braccio di ferro tra “Belge” e le autorità continua, mentre - ed è questo che veramente addolora gli ostinati editori - pare destinata a concludersi in carcere la vita di Ismail Besikci, tra i loro autori il più importante per far comprendere la follia da cui nasce l'insostenibile tragedia del popolo kurdo.

Besikci, Yasar Kemal e gli editori Zarakolu hanno in comune con il movimento di liberazione del Kurdistan 1’interesse e il rispetto per tutte le diverse culture che in Turchia sono represse. 11 PKK e il suo braccio politico, l'ERNK, sono ben lontani dallo sciovinismo e si trovano in sintonia con gli intellettuali turchi e kurdi nel voler valorizzare quel «giardino di mille colori e di mille profumi» che potrebbe essere il Kurdistan se non fosse da quasi un secolo straziato dalla cieca brutalita dei colonizzatori. Per affermare questa visione multiculturale, un gruppo di intellettuali turchi e kurdi (tra i quali Besikci, in una parentesi di libertà, e Musa Anter, lo scrittore assassinato) ha fondato nel 1991 il “Centro culturale della Mesopotamia” (MKM),

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che alla barbarie si oppone con le armi della cultura.

Il centro ha – o dovrebbe avere – sedi ad Ankara, Istanbul, Izmir, Adana, Diyarbakir e nell'antichissima città di Arbil nel Kurdistan iracheno. Ma le sue sedi in Turchia sono spesso devastate da incursioni di agenti in assetto di guerra, chiuse d'autorità, riaperte a fatica con battaglie giudiziarie e interventi di autorevoli osservatori europei; nel 1996 sono state chiuse le sedi di Adana, Izmir, Diyarbakir, Arbil (quest'ultima venne distrutta, e le sue addette massacrate, dalle truppe irachene). Nel 1999 rimane sal­tuariamente aperta quella di Istanbul. Gli artisti di MKM sono perseguitati, arrestati e selvaggiamente picchiati, finiscono in car­cere, vengono sequestrati, scompaiono. Tra gli scopi del centro ci sarebbe anche l’insegnamento della lingua kurda, ma per questo nessuna associazione, nessuna scuola riesce a ottenere l’autorizza­zione in Turchia, anche se si tratta ovviamente di iniziative private e non pubbliche. Presidente di MKM è Nuray Sen, ex insegnante, socia di IHD, sindacalista. Come molte donne kurde, è vedova. Il marito era candidato nel distretto di Urfa per il Partito democra­tico DEP, alle elezioni amministrative del 1994. Venne arrestato e di lui non si seppe più nulla, finché venne ritrovato il suo cadavere con i segni di orribili torture (questo, come molti altri omicidi di stato, venne esaminato dalla Commissione europea per i diritti umani che concluse per la responsabilità del governo turco). Anche Nuray Sen è stata più volte arrestata, torturata, processata. I capi di accusa si riferiscono sempre a una presunta appartenenza al PKK. Nuray Sen ha raccontato che nel corso di una attacco delle forze speciali alla sede di Diyarbakir, nel 1996, gli agenti fecero uscire tutto il personale tranne una giovane impiegata. Disposero nella sede armi e bandiere del PKK, e per ore picchia­rono e aggredirono sessualmente la giovane perché "confessasse" ' non soltanto davanti a loro: interrompendo le torture, le chiede­vano di dichiarare la militanza (sua, e degli altri del centro) nel PKK per telefono alle sedi locali di IHD, del partito HADEP e poi di fronte alle telecamere di due televisioni, chiamate nel frattempo. Furono infine costretti a portare e la ragazza in ospeda­le; appena fu più o meno in grado di stare in piedi, venne bendata e portata nella sede di Jitem, dove fu più volte stuprata [[[NOTA: Le confessioni estorte con torture e stupri — su uomini e donne — sono di solito le uniche prove su cui si basa l’accusa di appartenenza a organizzazione illegale contro operatori dei diritti umani, membri di associazioni culturali, politici democratici, come denunciano IHD e Amnesty International, ma spesso i giudici tengono conto di queste prove, nonostante le argomentazioni della difesa]]]. Anche Nuray Sen durante la detenzione prima del processo venne vio­lentata con un bastone uncinato e riportò lesioni interne.

Nuray Sen, gli artisti e gli insegnanti di MKM alla violenza oppongono la loro determinazione. «Un giorno dopo l’altro, andiamo avanti – aveva detto la presidente, che è stata seriamente minacciata di fare la fine del marito –. Se finiamo in carcere o ci ammazzano, qualcun altro prenderà il nostro posto»,.

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4. Il coraggio della pace

 

Tomris Ozden e Eminè Duman: donne contro le armi

 

Tomris Ozden, è turca, nata sulla costa dell'Egeo. Nell'estate del 1995 è rimasta vedova di un colonnello dell'esercito turco caduto combattendo contro il PKK. Eminè Duman, kurda, è la sorella di un ragazzo del PKK morto combattendo quello stesso esercito nel 1991. Ai grandiosi funerali del colonnello, a Istanbul, le due donne si abbracciarono piangendo e insieme dissero ai presenti – e soprattutto alle autorità: «il problema kurdo non si risolve uccidendo». Da allora, Tomris e Eminè hanno continuato a stare fianco a fianco, animatrici instancabili di quel movimento per la pace e la democrazia che coinvolge la parte migliore del paese, indipendentemente dall'appartenenza etnica, che le due donne ben rappresentano nella reciproca diversità.

Tomris Ozden, 46 anni, due figli, è una donna sottile, che indossa di preferenza pantaloni e giacche eleganti, porta i capelli biondi cortissimi, si trucca con cura. Eminè Duman, quasi coetanea, kurda di Mardin inurbata a Istanbul, ha un marito e cinque figli. Riesce a evocare il costume del suo paese indossando bluse morbide sopra ampie gonne lunghe alle caviglie e incorniciandosi il viso con il velo di cotone orlato di un ricamo nei colori del Kurdistan. Ozden, nervosa ed energica, è una donna turca della borghesia laica occi­dentalizzata, Duman, dal viso sereno, dai gesti pacati, ricorda la madre, la terra, la tradizione della remota colonia.

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«Il primo problema è la democrazia – afferma Tomris Ozden –. Sulla questione del sud, che è molto delicata, io sono d'accordo anche per ll federali­smo, e certamente vanno in ogni caso riconosciute libertà di lingua e di cultura, e l’autonomia locale. Ma bisogna fermare il conflitto. Mio marito era contrario alla guerra e nelle ultime lettere mi scriveva che non è quella la soluzione della questione kurda». Eminè Duman racconta quanto sia difficile e pericoloso riuscire a organizzare a Istanbul iniziative per la pace e dei tentativi – vani – fatti insieme a Tomris e a altre donne per coinvolgere le associazioni religiose. «Io sono credente – dice – e so che la religione deve essere a favore dell'umanità, non per la guerra». Insieme le due donne, che sembrano vivere quasi in simbiosi, facendosi forza l’una con l’altra per sostenere un ruolo molto difficile, hanno anche partecipato nel 1995 a un incontro internazionale a Bonn come efficaci ambascia­trici della voglia di pace da parte turca e kurda, ma da allora non hanno più avuto la possibilità di lasciare il paese, per il rifiuto delle autorità di concedere loro il visto di uscita. Non e questo però il loro problema principale, ma le persecuzioni di cui sono oggetto: in particolare Tomris, perché "tradisce" il razzismo di cui sono impre­gnati in maggioranza i suoi connazionali e offende l’opinione pub­blica di maggioranza. Contro di lei è stata scatenata una pesante campagna giornalistica di tipo scandalistico basata su calunnie stravaganti ma non per questo meno dolorose, ed è stata espulsa – fin dall'inizio della sua missione pacifista – dal Partito socialdemo­cratico turco a cui era iscritta. Tomris e Eminè nei loro interventi non smettono di sottolineare la tragedia del sangue versato dalle due parti in una guerra che appare senza fine e la follia delle continue spese per armamenti fatte da Ankara, che per alimentare l’impressionante budget militare priva il paese di ogni tipo di assistenza sociale e condanna a morte la popolazione dei villaggi kurdi, deportata e lasciata senza mezzi di sussistenza. Ma sono appelli senza speranza. Ankara continua nella strategia dei cospicui investimenti nelle forniture di armi sempre più abbondanti, sempre più sofisticate e usate esclusivamente contro il popolo kurdo. La

spesa per armamenti è anche una strategia, utilizzata per ridurre alla ragione quei paesi che danno pericolosi segni di apertura nei con­fronti della causa kurda. Il sistema e semplice: non appena un paese si permette di trasgredire ai diktat di Ankara, basta escludere le sue industrie da una delle ricorrenti gare di appalto per forniture militari. L’acquisto o meno da parte di Ankara di grandiose forni­ture militari funziona sia come strumento di ricatto sia come mezzo di punizione: nel giugno 1998 il Parlamento francese aveva dichia­rato, in una legge di un solo articolo e di sette parole: «La Francia riconosce il genocidio degli armeni». Pressioni, minacce, manifesta­zioni turche avevano bersagliato Parigi durante la discussione della legge. Il ministro della difesa Ismet Sezgin aveva chiarito: «Nella scelta dei paesi dai quali la Turchia acquisterà materiali militari, noi prendiamo in considerazione, tra l’altro, il fatto che tali paesi difendano o non difendano le nostre tesi in campo internazionale». Quale sia la prima preoccupazione in campo internazionale della Turchia lo aveva spiegato in quell'occasione il presidente Demirel il quale, dopo aver accusato i deputati francesi di «falsificazione storica» minacciava: «In alcuni ambienti occidentali il trattato di Sèvres non è stato dimenticato. L'Impero ottomano ha dato origine a 26 stati, a eccezione degli armeni e dei kurdi, e non ci saranno mai uno stato armeno ne uno stato kurdo in Anatolia. La Turchia sa riconoscere i suoi nemici [...] Se tutti i nemici tenteranno di unirsi contro la Turchia, la Turchia ha la capacita di affrontarli». In quel periodo era stato concluso un contratto con la Aerospatiale per diecimila missili anticarro, si negoziava con la Eurocopter per circa 150 elicotteri da guerra e con la Giat Ind. per la produzione in joint venture di un migliaio di carri armati. Gli ufficiali turchi, prima ancora che la legge sul genocidio armeno venisse approvata, esclu­sero la Francia dalla gara per apparecchi di sorveglianza aerea della Marina e sospesero tutti gli altri negoziati per un ammontare di 10 miliardi di dollari, come dichiarata forma di pressione sulla decisio­ne del Parlamento.

Un perfezionamento della politica del ricatto è stato elaborato

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dai vertici militari di Ankara alla fine del 1997, con l’invenzione del semaforo degli appalti. Luce verde per i paesi amici, che ignorano la questione kurda, gialla per gli ex amici, che avevano dato pericolosi segni di interessamento alla sorte dei turchi della montagna (l’Italia era tra questi, perché si era svolta a Roma nell'aprile 1997 una conferenza di pace a cui erano stati invitati esponenti turchi e kurdi), luce rossa per i responsabili di compor­tamenti ostili, come l’ospitare il Parlamento kurdo in esilio. Il sì alla vendita agli industriali turchi di due fabbriche di componenti d'arma italiane, la Piaggio di Genova e la Bernardelli di Brescia, aveva poi nuovamente trasferito il nostro paese nella sezione del "semaforo verde". Ma l’orizzonte si era incupito quando il Senato italiano aveva ospitato, nell'autunno del 1998, una assemblea del Parlamento kurdo in esilio. Questi i fatti, nelle parole di un comunicato stampa di quell'anno: «Ansa – Ankara, 1° ottobre. Il Consiglio di sicurezza nazionale (MGK), riunitosi ieri ad Ankara, ha deciso di prendere in esame misure di rappresaglia economica contro l'Italia – dopo la riunione del Parlamento kurdo in esilio – qualora il governo di Roma non prenda chiaramente le distanze dai ribelli kurdi del PKK ... ». Il ministro della difesa Izmet Sezgin ha accusato l'Italia, in un'intervista al quotidiano di destra “Türkiye” di «avere la stessa posizione della Siria riguardo all'appog­gio all'organizzazione terrorista separatista» del Partito dei lavo­ratori del Kurdistan (PKK) che da 14 anni porta avanti una guerriglia autonomista nel sud-est turco. Il quotidiano «Milliyet» scrive che il MGK ha convenuto che se l'Italia «non abbandonerà il suo atteggiamento ostile contro la Turchia, si lanceranno una serie di rappresaglie economiche a cominciare dal veto alla società Agusta per la commessa di 4,5 miliardi di dollari per la fornitura di elicotteri alle forze armate». Sezgin, citato da «Hurriyet», ha detto che dopo la riunione del Parlamento kurdo non si puo più parlare come prima di contratti alla difesa «con un paese che ha permesso le attività di un fronte dell'odio contro di noi». La Agusta fu effettivamente esclusa dalla gara d'appalto. Il barometro dei rapporti Ankara-Roma sprofondò poi in una tempesta di gelo durante la permanenza di Ocalan in Italia. Tre giorni dopo il sequestro del leader kurdo a Nairobi, tornava a splendere il sole sulle commesse militari, come comunicava un'altra «Ansa» dal titolo “Ocalan, Turchia: Agusta inclusa in selezione elicotteri”, datata Ankara, 19 febbraio, che continuava: «Il governo turco ha deciso di includere tutte le imprese in corsa per la produzione di elicotteri per le forze armate nella lista finale per l’aggiudicazione dell'appal­to, inclusa l’italiana Agusta. [...] L'appalto riguarda la produzione di 145 elicotteri da attacco per un valore di circa 3,5 miliardi di dollari». La Agusta è stata perfino inclusa nell'elenco privilegiato, comprendente le americane Boeing e Bell-Textron, I'Eurocopter franco-tedesca e la russa Karnov. Gli elicotteri d'attacco hanno un ruolo di primo piano non soltanto contro la resistenza ma anche contro le manifestazioni pacifiche in Kurdistan.

Ankara sa che le armi sono in assoluto il prodotto più costoso e più lucroso dell'industria dei paesi sviluppati e si comporta di conseguenza. Sa anche che le pressioni dell'opinione pubblica o dei parlamentari induce di tanto in tanto alcuni paesi a fermare le vendite di armi alla Turchia –è successo alla Germania, all'Olan­da, al Sudafrica – ma che si tratta di una parentesi, perché finiran­no senz'altro per prevalere le efficaci pressioni dell'industria bel­lica; resistono nobilmente soltanto i paesi scandinavi. Ankara ha potuto constatare che le violazioni dei diritti umani diventano invisibili alla luce accecante dei miliardi di dollari che essa e in grado di elargire grazie a sostanziosi prestiti ad hoc che riceve da Washington, nonostante l’opposizione di associazioni e parla­mentari. Per questo Daniele Scaglione, presidente di Amnesty International-Italia, in ogni intervento pubblico, in ogni intervista sulla questione kurda, da tempo esordisce chiedendo che nei confronti della Turchia venga posto in atto il blocco delle fornitu­re belliche. Purtroppo, mentre per anni e decenni contro alcuni paesi si decreta e si mantiene l’embargo totale delle merci, pena­lizzando crudelmente la popolazione, la comunità internazionale

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non ha mai preso in considerazione la semplice misura del blocco della vendita di armamenti: un segnale di dissociazione dal geno­cidio, più concreto e più efficace delle inutili parole di condanna che si riversano su Ankara da parte delle istituzioni europee e dai parlamenti di molti paesi.

 

Leyla Zana. Due crimini: pace e fratellanza

 

Si chiama Leyla Zana una splendida camelia. E’ nata nell'aprile 1999 e il floricoltore genovese Vincenzo Melevendi che l’ha creata ha voluto ricordare così una donna in carcere da anni per la sua militanza in favore della pace. I fiori preziosi, se portano nomi di donna, sono dedicati a regine e principesse. E’ una piccola rivolu­zione democratica, l'omaggio rivolto a una donna del popolo, alla sua coerenza, al suo coraggio.

Layla Zana, nata nel 1960 in un villaggio nei pressi di Diyar­bakir, si e costruita da sola una cultura politica. I suoi studi si fermano ai primi tre anni della scuola elementare. Ha soltanto 14 anni quando la famiglia, secondo le usanze del profondo Kurdi­stan, la dà in sposa al cugino Mehdi Zana, sindaco di Diyarbakir. Leyla si era ribellata ostinatamente a quel matrimonio e mantiene nei primi mesi di vita coniugale un atteggiamento di ostilità verso il marito, che ha vent'anni più di lei. Poi prevale l’interesse per le idee e le azioni di un uomo coraggioso, e Leyla diventa la combat­tiva compagna di Zana, nella buona e soprattutto nella cattiva sorte.

Durante il colpo di stato del 12 settembre 1980 Mehdi Zana è incarcerato* e diventa vittima e testimone delle atrocità commesse nel carcere speciale di Diyarbakir (ne riferira in un libro, pubbli­cato in Francia dieci anni dopo) e poi viene trasferito in altre prigioni della Turchia.

[[[NOTA: Mehdi Zana, sostanzialmente per il fatto di essere sindaco della maggiore città del Kurdistan, è condannato a 30 anni di carcere, ne sconta dodici, e tre anni dopo la liberazione subisce una nuova condanna a cinque anni per aver testimoniato sulla situazione del Kurdistan di fronte al Parlamento europeo]]].

Leyla Zana, rimasta sola con un figlio di cinque anni e incinta di un secondo (sarà una bambina) viaggia attraverso il paese per far visita al marito, affrontando umiliazioni, attese, rifiuti, maltrattamenti. Ha dimenticato le elementari nozio­ni di turco imparate a scuola, ed è costretta, per poter frequentare le carceri e parlare con il marito, ad apprendere bene questa lingua. Attraverso l’orrore delle prigioni e il despotismo delle autorità, nasce e matura in lei una coscienza politica e cresce il desiderio di agire per contrastare l’ingiustizia.

La giovane mamma studia e si diploma a Diyarbakir, pur poten­do frequentare le scuole soltanto saltuariamente e diventa la portavoce delle mogli, figlie, sorelle dei carcerati. Alla fine degli anni '80 Leyla, che ha organizzato un'associazione di donne con sede a Diyarbakir e a Istanbul, entra nella redazione del giornale kurdo «Yeni ulke». E’ una cronista del terrore di stato: va nei villaggi dove sono in corso le deportazioni, assiste agli incendi appiccati dall'esercito, cerca e intervista uomini e donne vittime delle forze di sicurezza, ricostruisce con familiari e testimoni la sorte degli scomparsi. Partecipa in prima linea a tutte le manife­stazioni della resistenza civile, dalle feste di Nawroz ai funerali delle vittime del terrore. E’ controllata, minacciata, arrestata.

Nel giugno 1990 nasce il primo partito pacifista, HEP. In Turchia non possono esistere partiti regionali o partiti che nel loro programma facciano riferimenti a minoranze. HEP (Partito del popolo) è legittimamente fondato e diretto da personalità kurde con un programma democratico valido per l’intero paese, ma prevalentemente in Kurdistan si trova il suo elettorato. Nelle elezioni politiche del 20 ottobre 1991 HEP conquista 22 seggi all'Assemblea nazionale. Uno è vinto da Leyla Zana, candidata di Diyarbakir, nel cui distretto ha trionfato con 1'84% dei voti. E’ la prima volta che una donna kurda entra in Parlamento. Nella cerimonia di insediamento Leyla Zana giura pronunciando la

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formula di rito sull'indivisibile integrità del paese e sull'unicità della nazione e poi aggiunge: «Ho giurato in nome della fratellan­za dei popoli turco e kurdo». Esplode l’assemblea ed esplode il paese: la seduta è trasmessa in diretta televisiva. I parlamentari sconvolti urlano e picchiano sui banchi, molti si precipitano sul podio per malmenare la collega. Gli altri deputati kurdi dichiara­no di aver letto il giuramento «per costrizione costituzionale» e affermano che la Costituzione, frutto del golpe militare, è contra­ria alla fraternità turco-kurda. La seduta è sospesa, mentre in Kurdistan l’esultanza si esprime in rumorosi cortei per le strade e in tripudianti manifestazioni sui tetti.

E’ prevedibile una sentenza di scioglimento del partito. Per pre­venirla, nel maggio 1992 gli stessi esponenti di HEP fondano il DEP (Partito democratico). Continua intanto la strage dei militanti di HEP, già iniziata durante le elezioni. In aprile tre funzionari del partito e un simpatizzante muoiono per emorragia interna durante gli interrogatori di polizia e vengono assassinati dalle forze speciali il presidente della sezione di Kiziltepe e suo fratello. Leyla Zana, scampata per puro caso a due attentati, viene minacciata pubblica­mente di morte, perfino in presenza di una delegazione di osservatori europei. Amnesty la prende sotto tutela. Due giorni prima dello scioglimento di HEP, avvenuto nel luglio 1992, i suoi deputati entrano nel DEP. Poco dopo uno di loro, Mehmet Sincar, deputato di Mardin, viene assassinato; rimangono gravemente feriti il fratello e un altro parlamentare, Nizamettin Toguc che diventerà un mem­bro di rilievo del Parlamento in esilio. Le autorità turche tentano perfino di vietare le pubbliche esequie di Sincar, ad Ankara. E pochi giorni dopo arrestano il presidente del DEP, Yasar Kaya, editore di «Ozgur gundem». In novembre, un gruppo di deputati del DEP rivolge un appello alla CSCE (ora OSCE) di cui la Turchia fa parte, chiedendo un esame della condizione dei kurdi in Turchia. L'OSCE, che avrebbe piena competenza in materia, non interviene. E nel corso del 1993 la Corte costituzionale inizia le procedure legali per l’incriminazione e lo scioglimento del DEP. Lo scopo è di impedire che questo partito partecipi alle elezioni amministrative, program­mate per il 27 marzo 1994. In Kurdistan si intensificano le distru­zioni, almeno un milione di persone sono private della casa e di ogni possesso. Per decreto viene ribadito il divieto di usare una lingua diversa dal turco nella propaganda elettorale, i seggi sono, concen­trati in località quasi irraggiungibili da buona parte degli elettori e presidiati da carri armati e elicotteri, all'interno è concessa libera circolazione ai temibili agenti della sicurezza. Il Parlamento euro­peo, preoccupato, chiede di poter inviare propri osservatori, ma ottiene un secco rifiuto. Sul DEP si abbatte un uragano di incredi­bile violenza. In tutte le sue sedi, da Istanbul a Mardin, da Ankara a Van, irrompono le forze "legali" governative; gli uffici sono incendiati, devastati, distrutti, come centinaia di abitazioni private dei suoi esponenti e militanti e perfino dei loro parenti. Numerosi villaggi vengono rasi al suolo; altri danneggiati con la promessa di tornare a compiere l’opera se gli abitanti avessero votato per il DEP. Nelle città migliaia di persone sono convogliate a forza negli stadi e minacciate di terribili rappresaglie in caso di successo elettorale del DEP. A centinaia membri, funzionari, esponenti del partito sono arrestati e trattenuti nelle stazioni di polizia o in carcere, dove vengono selvaggiamente torturati; tre di essi "scompaiono". Dodici probabili candidati sono sequestrati e assassinati dalle forza specia­li, altri cinque perdono ciascuno un figlio, ammazzato a scopo di intimidazione per tutti i familiari. Per centinaia di altri sospetti di simpatie per il DEP, la sorte è meno cruenta: numerosi pubblici impiegati sono licenziati, alcuni sindaci destituiti, e a molti tra quanti intendono, nonostante tutto, candidarsi, nel corso di "con­trolli di polizia" vengono stracciati o sequestrati i documenti. Al Parlamento è chiesto di esprimersi sull'abolizione della immunita per sei deputati del DEP, tra i quali il segretario del partito, al fine di consentire il loro arresto. Sono Mahmut Alinak (indipendente), Hatip Dicle, Orhan Dogan, Sirri Sakik, Ahmet Turk e Leyla Zana. Compatti, i parlamentari votano "sì", pur sapendo che i colleghi privati dell'immunità sono destinati a pesanti condanne, non esclusa la pena di morte.

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Intanto si intensifica la violenza contro persone e luoghi del DEP. Ciascuno degli esponenti, funzionari, quadri, possibili candidati e simpatizzanti rischia di perdere la vita, tutte le sedi sono devastate e non è possibile svolgere alcuna attività. Il bilancio per HEP-DEP è pesantissimo. In quattro anni, sono caduti oltre settanta "martiri della democrazia", migliaia di funzionari e aderenti sono stati incarcerati e torturati, decine di sedi sono state rese inagibili; il DEP non può comunicare con gli elettori, e addi­rittura non può organizzare i funerali delle vittime. Il 25 febbraio, a circa un mese dal voto, il DEP annuncia il suo ritiro forzato dalla competizione elettorale. «Contro la guerra totale, dobbiamo lancia­re la pace totale – dice un appello rivolto dal partito alla popolazio­ne turca e kurda –. Non possiamo cedere pace e libertà, fratellanza e diritti umani, ai partigiani della guerra. Sono pochi. Possiamo fermarli. Possiamo riuscire a fermare il bagno di sangue e le nostre sofferenze. La nostra forza sta nell'essere uniti». In realtà, in Tur­chia non e mai nato un movimento pacifista di massa, o almeno di una certa rilevanza; l’ “onore del popolo turco”, per usare l’espres­sione di Besikci, è rappresentato da una minoranza, tanto più esposta in quanto non sostenuta dall'opinione pubblica, imbevuta di razzismo costituzionale e indottrinata dai media antikurdi: per fare un solo esempio, tra centinaia: Ymset Ynset, direttore del «Turkish Daily News», un professionista di grande valore e espe­rienza, dovrà proprio quell'anno rifugiarsi in esilio, in Inghilterra, a causa dei suoi editoriali, lasciando spazio nel quotidiano – che su altri fronti rimane autorevole – allo sciovinismo di stampo governa­tivo per quanto riguarda la questione kurda.

La tragica sorte dei partiti HEP e DEP, che verrà in seguito condivisa dal loro epigono HADEP (Partito democratico popola­re) è la prova evidente dell'impossibilità, per il popolo kurdo, di opporsi al genocidio con lo strumento dell'attività politica e mostra il volto della violenza assoluta del potere nei confronti non soltanto della resistenza armata, ma della legittima competizione democra­tica e pacifista. Dopo il ritiro del DEP dalla competizione, l'ERNK,il Fronte di liberazione, invita gli elettori del Kurdistan all'astensio­ne, mentre le forze governative perseguono il fine opposto, costrin­gere al voto, peraltro obbligatorio, con minacce, intimidazioni, brutalità. L'astensione è massiccia, con una media del 40% e una punta dell'80% a Dersim-Tunceli. I votanti, inoltre, esprimono la loro protesta nei confronti dei consueti partiti che di anno in anno formano i vari governi, e che sono tutti,  nei confronti della questio­ne kurda, ipernazionalisti, scegliendo l’unico partito nuovo, e quin­di non compromesso con le politiche del passato, il Refah (Partito della prosperita). E’ un partito islamico, che nel suo programma prevede l’uguaglianza dei fedeli, e quindi qualche apertura nei confronti dei diritti dei kurdi e della pace. E successo del Refah, che conquista molte municipalità nella laica Turchia, comprese Ankara e Istanbul, è dovuto in buona parte alle vicende del DEP e all'opera di carità delle sue confraternite che offrono una certa assistenza ai profughi diseredati dai villaggi distrutti. «Il voto esprime più una rivolta sociale e politica, che un'islamizzazione della società turca – aveva commentato il sociologo turco Nulefer Gole –. Il Refah rappresenta oggi la sola contestazione di un sistema in crisi».

Il 16 giugno dello stesso anno, il 1994, la Corte costituzionale decreta, come previsto, lo scioglimento del DEP. I pretesti sono, al solito, reati d'opinione: un discorso pacifista del presidente Yasar Kaya, nel frattempo rifugiatosi in Europa, e l’appello per la pace diffuso dal Comitato esecutivo del partito. Altri sette depu­tati vengono privati dell'immunità; alcuni di essi lasciano il paese o non vi fanno ritorno, evitando l’arresto. Rimangono liberi, in vita e al loro posto nell'assemblea, per il momento, quattro parla­mentari: la loro decadenza farebbe venir meno in Parlamento il numero legale, e si dovrebbero indire elezioni anticipate, che la premier Tansu Ciller, visti i risultati delle amministrative, non si sente di affrontare.

Il 3 agosto inizia ad Ankara il processo contro i sei parlamentari arrestati per primi. Tra i capi dell'accusa di "separatismo" formulati in base all'art. 125 del codice penale, che prevede anche la

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pena di morte, oltre agli appelli per la pace, ci sono le testimonian­ze sulla situazione in Kurdistan rese da Leyla Zana a Washington l’anno precedente, dove era stata invitata dalla Commissione per i diritti umani del Congresso americano. Zana anche in quelle occasioni aveva indicato la via del dialogo e dei negoziati di pace come unica soluzione alla guerra turco-kurda. Tra i vari "crimini", c'è anche l’aver detto «sono kurda» e l’aver pronunciato in Parla­mento qualche frase «In una lingua incomprensibile che ella chiama "kurdo"», secondo la formulazione dell'accusa.

In Europa esprimono sdegno, questa volta, non soltanto i parlamentari ma anche i capi di governo, unanimi o quasi nel condannare con forza l’incriminazione di deputati democratica­mente eletti per opinioni espresse nell'ambito del loro mandato. Unica eccezione, il premier italiano Berlusconi, il quale nel vertice europeo di Essen giustifica pienamente la Turchia, perché, a suo dire, sarebbe penalizzata dalla presenza in Parlamento di «cento deputati comunisti» (in realtà, non è neppure consentito dalla Costituzione turca fondare un partito comunista, o meglio, come viene detto pudicamente, un partito «su una base di classe»). La richiesta della pena di morte viene evitata in extremis dal presi­dente francese Mitterrand, il quale alla vigilia del processo invia un durissimo messaggio ad Ankara, minacciando rappresaglie politiche. Gli imputati kurdi possono contare su un'ottima difesa; del collegio di avvocati fanno parte anche due ex ministri di Francia, Roland Dumas e Segolene Royal. Ma questo non impe­disce ai giudici del DGM di Ankara di comminare pene pesantis­sime, incredibili e inaccettabili nell'Europa della libertà di espres­sione: 15 anni di carcere per Leyla Zana e Hatip Dicle, segretario del partito, qualche anno in meno per gli altri.

Da allora nel mondo occidentale la campagna a favore degli ex deputati kurdi non si e fermata, concentrandosi sulla figura di Leyla Zana, che diventa il simbolo della ferita inferta ai valori della pace e ai principi della democrazia.

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Il Parlamento europeo nel 1995 le ha conferito il premio Sacharov per la libertà di espressione e riconoscimenti analoghi (tra i quali il premio Romero) le sono stati attribuiti in diversi paesi. In Italia ha ricevuto la cittadinanza onoraria di Roma, di Palermo e di altre città e in ultimo il premio Donna dell'anno della Val d'Aosta (1998). Nel 1996 Amnesty International lanciava una grande campagna in suo favore. Il 25 novembre 1997 il Tribunale europeo per i diritti umani, a cui Leyla Zana e i colleghi avevano fatto ricorso, ha condannato la Turchia per gravi violazioni nei loro confronti e l’ha condannata a pagare una forte penalità. Jose Ramos-Horta, leader indipendentista di Timor Est, ha dedica­to a Zana il suo Nobel per la pace. Un premio che difficilmente verrà mai conferito direttamente all'ex parlamentare kurda, già due volte candidata, anche se paga con il carcere il suo impegno pacifista, per non urtare troppo la sensibilità di Ankara e dei suoi alleati con un gesto che porterebbe alla ribalta del grande pubblico la realtà della "democratica" Turchia. Gli intellettuali progressisti di tutto il mondo, americani compresi, continuano a mobilitarsi e nel 1998 si aggiungono al coro 153 parlamentari degli Stati Uniti (un quarto del Congresso) la cui presa di posizione non può essere ignorata dal presidente Clinton. L’onnipotente alleato induce la Turchia a concedere la "grazia" a Leyla Zana. Ma Zana rifiuta. E’ disposta ad accettare la scarcerazione soltanto a patto che il bene­ficio venga esteso a tutti gli altri prigionieri d'opinione. Pronta arriva la vendetta di stato: il 17 settembre 1998 il DGM di Ankara la condanna ad altri due anni di carcere per una lettera da lei indirizzata al partito HADEP, per «incitazione all'odio razziale». Un'accusa che appare assolutamente gratuita: nella lettera, Zana invita i responsabili di HADEP a non lasciarsi trascinare dall'indi­vidualismo e a mantenere compatto il partito, ricordando il sacrifi­cio di alcuni esponenti assassinati, ma senza formulare accuse nei confronti del regime e senza alcun cenno che si possa ricondurre anche lontanamente a una contrapposizione tra i due popoli [[[NOTA: Per una coincidenza, forse voluta, nello stesso giorno si concludevano altri due processi: a Van veniva condannata a 15 anni di carcere Eva Junke, una giovane internazionalista tedesca militante del PKK e in un altro tribunale di Ankara Hatip Dicle, condannato come Zana a 15 anni, riceveva una condanna supplementare a 13 mesi per aver diffuso un suo «Saluto a Eva». Un'altra militante tedesca, Andrea Wolf, catturata all'inizio del 1999, è stata invece "giustiziata" in aprile senza processo]]].

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Da Mehmet Sincar a Leyla Zana, l'odissea dei primi parlamen­tari dichiaratamente kurdi eletti di tutta la storia della Turchia si conclude in breve tempo con la morte, la prigione, lesilio.

La mobilitazione internazionale non è riuscita neppure a miti­gare la detenzione di Leyla Zana. Le è vietato telefonare al marito e ai figli, mentre le delegazioni che tentano di farle visita sono regolarmente respinte. Filtrano però, attraverso i suoi avvocati o le maglie della prigionia, alcuni suoi scritti. Pochi, nel corso degli anni, e ispirati tutti da un vivissimo senso di umanità. Leyla Zana, fin dal suo primo intervento dal carcere, pubblicato allora dai maggiori quotidiani americani, mette appassionatamente a fuoco il cuore del problema: l’urgenza della pace, dei diritti umani e delle libertà democratiche per entrambi i popoli, turco e kurdo, che vuole rimangano uniti nella fratellanza e non separati dal­l’odio.

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5. Mafia e terrore di stato

 

Akin Birdal e gli assassini misteriosi

 

«In Turchia, che si definisce uno stato di diritto e bussa alle porte dell'Unione Europea, nessuno degli autori di oltre 4.500 assassini politici non chiariti, i tristemente celebri “faili mechul”, perpetrati dal 1991, e mai stato arrestato; nel mio paese gli assas­sini percorrono liberi le strade, gli intellettuali sono dietro le sbarre». Akin Birdal, con il consueto tono di voce pacato, quasi sommesso, aveva pronunciato queste parole in un'assemblea della Federazione internazionale dei diritti umani, di cui è da anni vicepresidente. Poco dopo, ad Ankara, anche lui cadeva sotto il piombo dei sicari.

E’ il 12 maggio 1998, Birdal si trova in ufficio, nella sede centrale di IHD, l'Associazione per i diritti umani in Turchia, di cui è presidente. Due uomini chiedono di vederlo personalmente, gli scaricano addosso sei proiettili e fuggono. Birdal, colpito al torace e alle gambe, dopo lunghi e delicati interventi sopravvive miraco­losamente; il chirurgo capo dell'equipe fa parte di IHD, come altri medici e infermiere. Circa un anno dopo dovrà ancora subire altri interventi; ha un braccio immobilizzato ed è costretto su una sedia a rotelle, ma c' è la speranza che possa riprendersi e tornare a camminare. IHD (associazione finanziata non dal governo turco ma dall'Unione Europea) con grande coraggio, puntualità e effi­cienza dal 1987 denuncia le violazioni dei diritti umani e offre

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assistenza e tutela legale alle vittime. Ha sede nelle principali città turche, Kurdistan compreso. Per anni Akin Birdal, uno smilzo cinquantenne turco dalla chioma scura e dai folti baffetti, si è prodigato instancabilmente per l’associazione tanto da farla cono­scere e apprezzare in tutto il mondo. Tra gli oltre 4.500 assassini insoluti ricordati da Birdal, oltre cento riguardano IHD: i suoi attivisti, i suoi avvocati, i suoi medici, uomini e donne, a volte ammazzati per strada, a volte sequestrati e orrendamente torturati prima di essere uccisi. Un attentato contro Birdal era nell'aria (era stato accusato di collaborare con il PKK) e il presidente di IHD lo sapeva bene, ma non ha mai né rallentato il suo lavoro né preso precauzioni. L'antefatto dell'attentato, chiarito in questa occasio­ne dai media turchi più onesti, è il seguente: due quotidiani e una televisione di destra diffondono la notizia – palesemente infonda­ta e risultata poco dopo ufficialmente falsa – che un comandante militare del PKK, catturato, avesse menzionato Birdal come col­laboratore di questa organizzazione. L'attentato viene rivendicato dalle “Brigate della vendetta turca”, specializzate in attentati contro democratici kurdi, ma che non disdegnano, come in questo caso, di attaccare personalità turche. Il primo ministro Mesut Yilmaz rilascia a numerosi quotidiani la solita, incredibile dichiarazione: «Sappiamo – afferma – che si tratta di un regolamento di conti interno. Una sorta di incomprensione tra gente dello stesso cam­po. E chiaro che (gli attentatori) sono collegati al PKK». In Parlamento, l'opposizione sostiene invece che «Non si deve cer­care la gang all'esterno, perché essa si trova all'interno del governo». IHD e Amnesty International chiamano chiaramente in causa la responsabilità dello stato. Akin Birdal è conosciuto e stimato in tutto il mondo. Un'ondata di indignazione si abbatte su Ankara dall'Unione Europea e dai ministeri degli esteri amici della Turchia. Così, in una settimana il caso è risolto. Vengono catturati sei uomini, appartenenti ad ambienti dei servizi segreti nazionali (MIT), dei servizi segreti di Jitem (squadre speciali­ antikurde) e della gendarmeria. Tra loro, Birdal riconosce i due

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attentatori. Le stesse autorità inquirenti turche affermano che la banda è collegata a uno dei più titolati collaboratori del MIT, il servizio segreto turco, lintoccabile Mahmut Yildirim, nome in codice, conosciutissimo, Yesil (il Verde), detto Terminator. «Uno dei grandi criminali protetti dallo stato» secondo l’ormai celebre Rapporto Savas, di cui e necessario spiegare l’origine.

Il 3 novembre 1996 nei pressi di Susurluk, sull'autostrada Istanbul-Izmir avveniva un grave incidente stradale tra un auto­carro e una Mercedes Sel. Sulla vettura viaggiavano, oltre a una ex reginetta di bellezza, Gonca Uz, nota per le sue relazioni con personaggi del sottobosco della criminalita comune, i seguenti personaggi: Sedat Bucak, deputato del partito DYP (“Partito della retta via”, guidato da Tansu Ciller) e "signore della guerra" contro i kurdi, guerra che conduce con una sua armata privata; Husein Kocadag, ex direttore generale della sicurezza di Istanbul trasfe­rito alla direzione dell'Accademia di polizia perché responsabile della sanguinosa repressione di una manifestazione a Gazi (Istan­bul) e denunciato per complicità nel traffico di droga dal boss Alaattin Caciki; un padrino della mafia di estrema destra, Abdullah Catli, implicato nell'attentato al papa, ricercato dall'Interpol per traffico di droga e dalla giustizia turca per l’assassinio di sette militanti di sinistra. Catli viaggiava con un documento falso che lo qualificava come "commissario di polizia" e con un vero passaporto di servizio, riservato agli alti funzionari statali, equivalente a un passaporto diplomatico perché esentato dal visto. La vettura era piena di armi (revolver, mitragliette, silenziatori, munizioni); conte­neva un lasciapassare speciale e un documento di immatricolazione a nome del vicepresidente del Parlamento e una valigia piena di biglietti di banca. Soltanto Bucak sopravvisse all'incidente.

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Due mesi prima, il presidente del Partito operaio (IP), Dogu Perincek, aveva rivelato un rapporto del servizio segreto MIT, in cui si accusava la polizia di aver organizzato «gruppi criminali, posti direttamente agli ordini del ministro degli interni Agar [...]. Il commissario Kocadag, che possiede una fortuna di 100 milioni di dollari, è il braccio destro del ministro [...] e il deputato Bucak è il braccio destro di Tansu Ciller, informata di tutte le operazioni che si sono sviluppate con il suo avvento al potere». Degno di nota è il fatto che Ciller, definita nel rapporto «la madre dei colpevoli», era diventata primo ministro sotto gli auspici dei generali del MGK e si dichiarava apertamente una sorta di longa manus dei militari nel potere civile. Il rapporto del MIT specificava che le squadre criminali della polizia, create in apparenza per colpire i militanti del PKK e di Dev Sol (formazione di estrema sinistra) si dedicano anche ad altre attività quali «Confisca di beni di privati cittadini, racket, traffico di stupefacenti, assassini» e che sono «Composte principalmente da ex membri di Ulkucu (“Focolari dell'ideale”, di estrema destra, come i “Lupi grigi”, anch'essi legati al partito nazionalista MHP). La Direzione della sicurezza – conti­nua il rapporto – fornisce loro carte d'identità della polizia e passaporti verdi» con i quali questi gruppi «si recano in Germa­nia, Olanda, Belgio, Ungheria e Azerbaigian per il traffico di droga». Il rapporto del MIT, confermato vistosamente dall'inci­dente di Susurluk, voleva scaricare sulla polizia tutte le responsabilità dei gruppi criminali appartenenti alle istituzioni e interveni­va in seguito a una serie di eventi che già dimostravano l’esistenza di una mafia di stato: una serie di omicidi eccellenti, sia di uomini d'affari, come il banchiere Engin Civan, sia di padrini mafiosi, approdati in tribunale ma mai realmente chiariti, che però aveva­no lambito i vertici del potere; la scoperta, nell'estate precedente, della gang dei fratelli Soylemez, composta tutta da ufficiali della polizia e dell'esercito; le reciproche denunce di boss mafiosi scaturite da quella che si rivelerà una guerra per motivi di interes­se, sia all'interno dei gruppi del terrore di stato, sia tra clan della mafia "autonoma" e clan della mafia di stato; perfino da denunce di cittadini coraggiosi, come la proprietaria di una fattoria che aveva denunciato le minacce di una di queste squadre per espro­priarla. Infine, alle stesse conclusioni erano giunte o stavano giungendo le indagini condotte in vari paesi europei, che scoprivano la rete della mafia turca.

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Verra confermato in seguito che il MIT glocava d'anticipo, nel tentativo di mascherare il proprio pieno coinvolgimento nelle organizzazioni criminali. Dopo l’inci­dente di Susurluk, il deputato Perincek chiedeva l’incriminazione della premier Ciller e del ministro degli interni Agar per costitu­zione di banda armata criminale, segnalando la partecipazione del MIT nell'organizzazione del terrore e indicava in 700 il numero dei killer impiegati in essa. Perincek aggiungeva che fin dal giugno precedente aveva spedito le relative prove al presidente della Repubblica Demirel e al portavoce del Parlamento, per contribu­ire a un’inchiesta, allora in corso, sull'uso improprio di fondi pubblici (risulteranno appunto impiegati per le organizzazioni criminali) da parte di Ciller. Secondo Perincek, Catli era il leader della mafia degli Idealisti e il personaggio chiave dell'organizza­zione criminosa di Ciller. Intervistato dopo il caso Susurluk dal quotidiano «Turkish Daily News» (4 novembre 1996) Perincek aveva commentato: «Questa organizzazione illegale è legata ai progetti degli Stati Uniti, i quali vogliono rendere la Turchia una forza di intervento nelle aree di crisi. La stessa rete criminale è stata coinvolta nel tentativo di un colpo di stato in Azerbaigian contro Haydar Aliev (il presidente, considerato non sufficiente­mente allineato con la Turchia e gli Stati Uniti) che fu condotto personalmente da Abdullah Catli [[[NOTA: Tra le prove, vi e anche un filmato che mostra Catli in azione. 11 fatto d'altronde non e mai stato smentito. Tra le operazioni "politiche" condotte dall'organizzazione parallela turca, vi sono attentati in Francia contro gli armeni da parte della colonna di Catli, tra i quali l’assassinio di un loro leader, provocazioni negli ambienti kurdi in Germania, il coinvolgimento nell'attentato al papa (con depistaggio da parte della CIA, avallato dall'ex ambasciatrice Claire Sterling e dall'ambasciatore USA a Roma, sulla falsa "pista bulgara"). Dettagli sui rapporti tra questa organizzazione, la CIA e la DEA si trovano nel libro di Carlo Palermo (che indag6 in Italia sul traffico di droga e armi collegato con l’attentato al papa) Il quarto livello, Roma 1996]]]. Gli Stati Uniti tentano di creare una situazione di conflitto tra Turchia e Iran in Azerbaigian e in Cecenia. Ma la principale area di crisi e per ora l’Iraq settentrionale (Kurdistan autonomo).

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Abdullah Catli e Alaattin Cakici sono coinvolti in queste operazioni» [[[NOTA: Perincek parla al presente anche di Catli, che aveva perso la vita nell'incidente di Susurluk, perché la rete di Catli continua a essere operativa]]].

Qualche giorno più tardi, 1'8 novembre, il redattore capo del quotidiano “Milllyet” in un editoriale rievocava il tristemente celebre ufficio della guerra speciale che aveva insanguinato il Kurdistan – ben prima della guerra contro il PKK — con le sue azioni di commando contro i villaggi e gli assassini di personalità degli ambienti democratici kurdi. «Nel 1974 – scriveva Yalcin Dogan – quando Ecevit era primo ministro, il capo di stato maggiore dell'esercito, Semih Sancar, domanda uno stanziamen­to, da trarre su un fondo segreto, per "urgenti necessita". Ecevit allora gli chiede a chi sono destinati questi fondi, e il generale risponde: "All'Ufficio della guerra speciale". Ecevit afferma che fino a quel giorno non aveva mai sentito nemmeno pronunciare il nome di tale ufficio e quando chiede chi lo finanzia, gli si rispon­de: "L'America". Domanda poi dove e ubicato questo Ufficio, che non è menzionato in nessun documento ufficiale, e ottiene questa risposta: "Nello stesso immobile in cui ha sede la Missione d'as­sistenza militare americana"»[[[NOTA: B. Ecevit, Karsi Anilar [Contro memorie], pp. 36-37]]].

Scoprendo con indignazione nella medesima vettura un crimi­nale ricercato, un direttore della polizia e un deputato, la Turchia trova di nuovo sulla sua agenda le relazioni "mafia-classe politica-­polizia" e questo triangolo è evocato come «Uno stato nello stato – continua l’editoriale –. Ora, quel che corrisponde veramente a questo concetto, è l'Ufficio della guerra speciale, come constatato anni fa da Ecevit».

L'editoriale concludeva, in sostanza, che nulla è cambiato in oltre vent'anni, anzi «Il processo funziona (oggi) in modo accele­rato e multiforme». I metodi del terrore, i criminali impiegati, gli effetti devastanti sono gli stessi, e anche l’utilizzo di queste bande

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all'interno e all'esterno del paese, in operazioni in cui l’impiego di forze ufficiali presenterebbe degli inconvenienti. […].  Ma questi affari non sono mai dibattuti nel Consiglio dei ministri! Mai dibattuti nel Consiglio per la sicurezza nazionale!» constatava con indignazione 1'editorialista.

Dopo lo scandalo di Susurluk i media turchi tracciavano paral­leli tra la situazione italiana degli anni precedenti, invocavano un'operazione "Mani pulite" e un Di Pietro anche per la Turchia. Ma l’avvocato Turgut Kazan, ex presidente dell'ordine di Istan­bul, dichiarava: «Non mi aspetto che un'inchiesta possa spingersi lontano come sarebbe necessario, perché non abbiamo poteri indipendenti in grado di farlo. In Italia, Gladio è caduta per l’intervento dell'Unione Europea, non degli italiani. Simili condi­zioni non esistono in Turchia. Se un super-procuratore come Di Pietro si prospettasse in Turchia, domani sarebbe trascinato attra­verso piazza Taksim come nemico della nazione» (TDN, 4 novem­bre 1996).

Cinque giorni dopo l’incidente, il ministro degli interni Agar ritiene opportuno rassegnare le dimissioni, per motivi di famiglia. Tansu Ciller rimane al suo posto e ottiene in un lampo la nomina di una sua protetta alla carica rimasta vacante. Il nuovo ministro degli interni è Meral Aksener, un'attivista del DYP, il “Partito della retta via” di Tansu Ciller, che si era fatta eleggere deputato nel 1995 per sfuggire, grazie all'immunità parlamentare, ad alcuni capi di accusa relativi a traffici illeciti di una sua società, appartenente alla holding dei coniugi Ciller. I giornalisti tremano. Dal suo debutto in Parla­mento, l'unica iniziativa pubblica conosciuta di Aksener è stata una conferenza stampa (6 settembre 1996) in cui minacciava di morte i direttori dei giornali che si occupavano dei dubbi affari della signora Ciller: «Noi avvertiamo i direttori di questi media – aveva detto –. Non dimenticate che voi suscitate l'indignazione degli appassionati militanti del “Partito della retta via”. Noi non riusciremo a trattenere i nostri giovani, fedelissimi di Ciller. Vi risponderemo con estrema fermezza e vi faremo tacere, voi e i vostri simili. Questo è il nostro, ultimo avvertimento».

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Tansu Ciller, arrivata al potere grazie ai suoi stretti legami con i vertici militari, da lei stessa vantati, proprietaria con il marito di immense ricchezze, anche negli Stati Uniti, era da tempo al centro di scandali per corruzione, malafinan­za, distrazione di "fondi segreti"; il marito nel 1996 era risultato tra i protagonisti di contrabbando di materiale nucleare dalla Russia e affiorava il suo coinvolgimento nel riciclaggio di denaro sporco tramite apposite banche.

Il Parlamento incaricò di indagare sui rapporti tra mafia e governo una commissione presieduta da Kutlu Savas, procuratore di stato. Il rapporto Savas venne reso pubblico il 28 gennaio 1997. Descrive in modo agghiacciante la situazione del Kurdistan, ma non solo. «Nella regione in stato di emergenza – dice il rapporto – il potere di decidere chi mettere a morte è sceso fino al livello di sergente-maggiore, di aggiunto di commissariato e spetta per­fino ai "pentiti". Quando persone trasferite da un servizio dello stato all'altro per una qualsiasi questione di competenza dei tribu­nali vengono trovate morte sotto un ponte, è evidente che non si può parlare di assassini compiuti da autori sconosciuti ...». In Turchia la pena di morte non e più applicata legalmente dal 1984 ma in compenso sono una valanga gli omicidi che nei rapporti delle associazioni per i diritti umani sono catalogati alla voce «esecuzioni extragiudiziarie», i cui autori e mandanti rimangono ufficialmente sconosciuti, in quanto eseguono le condanne di dipendenti o collaboratori dello stato. Il rapporto descrive il sud­est kurdo come una terra di nessuno dove gli uomini della guerra speciale (Jitem e "Rambo" appositamente addestrati) non si con­tentano più di ammazzare chi preferiscono, ma si dedicano anche al racket dei commercianti, ai ricatti, agli stupri e al traffico di droga su vasta scala.

Il Rapporto Savas si occupa estensivamente di Yesil-Termina­tor. Lo descrive come responsabile di almeno 19 assassini, tra cui quello del deputato kurdo del partito HEP, Mehmet Sincar. «E’ anche accusato – ricorda il rapporto – di aver rapito, sulla porta del tribunale per la sicurezza dello stato di Diyarbakir, due ragaz­ze giovanissime, Sukran Mizgin e Zaynep Baks, che ha violentato e torturato selvaggiamente prima di uccidere».

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Il rapporto Savas precisa che «il Terminator, protetto dal MIT, ha potuto disporre ad Ankara di un conto bancario su cui transitano somme enormi provenienti dal racket e dal traffico di droga», recando con se documenti dell'ufficio del primo ministro (Ciller). «I1 criminale – prosegue il rapporto – aveva lasciato il paese nel 1996 munito di passaporto diplomatico e scortato da due agenti del MIT, passan­do per il salone d'onore riservato al primo ministro nell'aeroporto di Istanbul».

Dal rapporto come dalle inchieste giudiziarie in Europa e dalle indagini di giornalisti turchi, talvolta portate a termine in Europa per sfuggire alla persecuzione in patria, emerge il fatto più inquie­tante. L'uso di grandi delinquenti e di organizzazioni criminali in funzione "politica" per l’eliminazione di intellettuali, operatori dei diritti umani, membri di partiti democratici (così come il narcotraffico di dimensioni planetarie e il riciclaggio del denaro) non coinvolge soltanto ministri, premier, vertici della polizia e dei servizi segreti, ma il sommo potere dello stato, cioè gli alti gradi militari del Consiglio per la sicurezza nazionale. Alla descrizione dell'intreccio tra alta politica e mafia «Le Monde Diplomatique» ha dedicato un denso articolo dal titolo “All'ombra dei generali, sicari e narcotrafficanti – La Turchia piattaforma del traffico di droga” (luglio 1998). «Sotto l’impulso dello stato, – dice «Le Monde Diplomatique» nell'occhiello – si sono ingigantite le attività ma­fiose, legate al traffico di droga e alle numerose eliminazioni d'oppositori e di difensori dei diritti umani». L'autore, Kendal Nezam, rileva che «per i turchi Susurluk è diventato sinonimo della deriva mafiosa dello stato. Per questo la popolazione non smette di reclamare un'operazione "Mani pulite"» e spiega che né la creazione della commissione d'inchiesta parlamentare né i ten­tativi di giustificazione del premier Mesut Yilmaz (il quale, alla fine del 1998, dovrà dimettersi perché implicato in rapporti di mafia) «hanno potuto soddisfare l’opinione pubblica, che vede in essi dei tentativi di dissimulare l’estensione della cancrena che devasta il cuore stesso dello stato. Dal momento che i responsabili politici e della polizia indicati (nel Rapporto Savas) sono sempre in libertà e affermano di aver agito in base a ordini provenienti dal vertice dello stato».

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Negli anni successivi, "il vertice dello stato" non viene chiamato in causa per la creazione e la gestione del crimine organizzato, «cancro che devasta il cuore dello stato». La rete del terrore istituzionale non viene smantellata. La stampa non potrà e la giustizia non vorrà arrivare a quell’ “altrove” citato dal direttore di «Hurriyet». Le atrocità si intensificano all'est e proseguono all'ovest. Giornalisti, editori, scrittori continuano a visitare aule di tribunale e celle di detenzione, quando non sono oggetto di "esecuzioni extragiudiziarie": soltanto nel gennaio 1999, denuncia e documenta IHD, si sono verificati oltre dieci casi di simili "esecuzioni" e di morti sotto tortura. Decenni di denunce della comunità internazio­nale non hanno ottenuto risultati; anzi, l'atroce pratica si è ulterior­mente estesa e diffusa. I torturatori non risparmiano nessuno. Tra gli infiniti casi documentati, quello certificato dall'ordine dei medi­ci di Istanbul nell'aprile 1988: un bimbo kurdo di due anni e mezzo, Azat Tomkak, ustionato con sigarette e preso a calci per indurre la madre a confessare presunti rapporti con il PKK. Il caso è riportato nel corposo rapporto annuale (circa 100 pagine) sui diritti umani in Turchia del Dipartimento di stato degli Stati Uniti, “Turkey Country Report on Human Rights Practices for 1998” reso pubblico il 26 febbraio 1999.

Nella stessa data, il 26 febbraio 1999 una raffica di mitraglietta manda in pezzi la porta dell'ufficio di IHD ad Ankara. Un chiaro avvertimento, oltre all'ondata di telefonate di minaccia che imper­versa sui membri dell'associazione dopo il sequestro di Ocalan a Nairobi.

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Dei due avvocati di IHD che hanno per primi volonta­riamente assunto la difesa del leader kurdo, entrambi oggetto di intimidazioni e aggrediti per strada, uno ha abbandonato 1'impresa per non mettere in serio pericolo anche i propri familiari; contro Eren Keskin, l’avvocato che dirige la sezione di Istanbul di IHD (e che
è anche la moglie di uno dei difensori di Ocalan, Zeki Ockoglu) si avvia un procedimento per i soliti crimini di separa­tismo. Ma tutti gli avvocati (turchi o kurdi) che lavorano per i diritti umani, riuniti nell'associazione Tohav, sono soggetti a ri­schio. Infine, Akin Birdal il 3 giugno 1999, nonostante sia ancora convalescente, entra in carcere per scontare la definitiva condanna a dieci mesi per incitamento all'odio razziale: aveva invocato una soluzione di pace alla questione kurda.

Entrano invece in Parlamento e nelle istituzioni locali, con le elezioni del 18 aprile 1999, diciassette membri di MHP e alcuni membri di ANAP (“Partito della Madrepatria”) e DYP, già imputati di assassini politici (prescritti) compiuti prima del golpe del 1980 e altri, colpevoli di crimini recenti, come Ali Uzunirmak (MHP), coinvolto nell'omicidio di un sindacalista e condannato in Germa­nia per traffico di droga. Non solo: tornano in Parlamento gli organizzatori del terrore di stato, Mehmet Agar e Sedat Bucak, il cui processo è stato sospeso onde consentirne la rielezione. Anche Oral Celik, il boss implicato nell'attentato al papa del 1981, si gode la libertà alla presidenza del football club di Malatya.

 

Abdullah Catli, storia di un criminale onorato

 

Dopo lo scandalo di Susurluk la società civile cerca di reagire alla piovra aderendo alla campagna "Un minuto nel buio per far luce" lanciata il 1° febbraio 1997. Il minuto di oscurità che cade nei centri urbani alle 21 di ogni sera è riempito dal rumore di clacson, fischietti e pentole. Alla voglia di chiarezza dei cittadini turchi non è lo stato a offrire una risposta ma un giudice tedesco. Al termine del processo contro tre narcotrafficanti, il giudice del tribunale di Francoforte, Rolf Schwalbe, sentenzia che «Il traffico di droga dalla Turchia verso la Germania e altri paesi europei è

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organizzato dalla famiglie Senoglu e Baybasin [...] protette dal governo turco, cosa che rende difficile far emergere tutta 1'esten­sione del traffico. E’ provato che queste due famiglie di trafficanti hanno rapporti molto stretti con un ministro turco donna» e precisa trattarsi dell'inaffondabile Tansu Ciller, all'epoca respon­sabile degli affari esteri. In precedenza altri due tribunali tedeschi, quello di Hannover e quello di Trier, avevano accusato il governo turco di sostenere il traffico di droga. L'esternazione del giudice Schwalbe desta scalpore per il nome di Ciller e per il putiferio di reazioni istituzionali che rimbalzano sui media turchi, ma è ormai acquisito a livello internazionale il fatto che la Turchia sia un narcostato.

Alla fine del 1996 l'Olanda rifiuta di estradare in Turchia il grande boss mafioso Hussein Baybasin, per la convinzione - espressa ufficiosamente - che in Turchia il traffico di droga è appannaggio dello stato. All'inizio del 1997 il viceministro degli interni britannico Tom Sackville afferma che 1'80% dell'eroina sequestrata in Inghilterra proviene dalla Turchia e cita «Preoccu­panti rapporti i quali provano che i vertici della polizia e perfino membri del governo sono implicati nel narcotraffico». E precisa: «Sappiamo che quando abbiamo informato di nostre operazioni segrete antidroga le autorità turche, esse hanno passato le infor­mazioni ai narcotrafficanti, e le operazioni sono fallite». Secondo la BBO la Turchia è ormai la Colombia del Medio Oriente. Un portavoce dell' “Observatoire géopolitique des drogues” di Parigi afferma che il 70% delle sostanze che entrano in Europa arriva dalla Turchia e questo non sarebbe possibile senza connessioni politiche, aggiungendo: «La droga sequestrata in Turchia non viene mai né distrutta né riportata alle agenzie internazionali. Il denaro ricavato dalla droga è consegnato alla milizia ufficiosa che combatte il PKK. Questo è risaputo in Europa. E’ stata scoperta in Turchia una rete vastissima di narcotraffico, così estesa che chiunque vi è coinvolto, in un modo o nell'altro» («Turkish Daily News», 28 gennaio 1997).

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La rete televisiva nazionale tedesca ARD ha dedicato la trasmissione “Kontraste” del 19 giugno 1997 alla ‘Turkish connection’ ormai di notoriet
à internazionale. «Ogni due o tre mesi la polizia turca dichiara di sequestrare 800 kg o una tonnellata di eroina. Ma questa droga non è mai distrutta.

E’ commercializzata dallo stato turco per finanziare le sue operazioni contro il PKK» ha affermato il giornalista di ARD, che definisce la Direzione generale della sicurezza turca una centrale della mafia della droga. E che ha commentato: «Il giro d'affari dell'ero­ina turca si aggira intorno al miliardo di marchi e per colmo di ironia il nostro governo dona alla polizia turca ogni anno 5 milioni di marchi per combattere questo traffico di droga». Secondo quanto affermato nel corso nel programma, le autorità tedesche sono perfettamente al corrente dell'implicazione del governo tur­co in questo traffico, ma «Per ragioni diplomatiche Bonn preferi­sce tacere». Il fatto è confermato da un ex responsabile dei servizi segreti tedeschi BND, Erich Schmidt Eenbohm. Conclude il ser­vizio: «Il denaro non puzza. E quando l'odore (del denaro sporco) puzza veramente forte, poiché la NATO ha bisogno della Turchia, il ministro degli esteri si tura il naso».

I legami tra mafia, criminalità politica e servizi americani emer­sero in inchieste italiane collegate all'attentato al papa compiuto a Roma in piazza San Pietro il 13 maggio 1981. In rapporto con l’attentatore Agca risultarono, tra altri, «Atalay Seran e Tegmen Ertem, in vario modo legati alla organizzazione terroristica dei trafficanti di stupefacenti e armi “Lupi grigi” e che, come accertato nella istruttoria della magistratura di Trento, erano anche agenti della DEA, organo investigativo americano operante ufficialmen­te nel solo campo della lotta al traffico degli stupefacenti» [[[NOTA: C. Palermo, Il quarto livello, cit., p.-233]]].

Dopo lo scandalo di Susurluk l’ex primo ministro Mesut Yil­maz spezza una lancia a favore degli "europei" le cui accuse indignano i vertici istituzionali: «Come si può dare passaporti di servizio riservati agli alti funzionari dello, stato a notori trafficanti

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di droga, e poi stupirci se ci criticano per il coinvolgimento del nostro governo in questo traffico?», si chiede pubblicamente Yilmaz, il quale peraltro, dopo aver riconquistato il ruolo di capo del governo dovrà dimettersi (alla fine del 1998) perché implicato in rapporti di mafia.

Un anno dopo, il “Narcotics Control Strategy Report” del Dipar­timento di stato americano, reso pubblico nel febbraio 1998, rivela che «circa il 75% dell'eroina sequestrata in Europa è fab­bricata o proviene dalla Turchia [...] Numerosi laboratori di purificazione dell'oppio utilizzati per trasformare la morfina base in eroina sono installati su suolo turco» e aggiunge che la Turchia è uno dei paradisi di riciclaggio del denaro sporco, attraverso i casinò, l'industria turistica, l'edilizia. Ma non risulta che gli Stati Uniti intendano mettere in discussione la collaborazione tra i loro servizi, i “Lupi grigi”, la mafia. Alcuni mesi prima di Susurluk, Fernando Carpentieri, direttore della “Financial Task Force” del­l’OSCE aveva denunciato: «La Turchia è l’unico membro del­l’OSCE a non applicare le misure decise da tale organizzazione per impedire il lavaggio del denaro sporco» e prevedeva ritorsioni contro la Turchia della comunità bancaria mondiale. Dalle inda­gini degli ultimi anni, e emerso che in Turchia e nella parte di Cipro occupata dai turchi nascono come funghi banche dalla vita brevissima, che hanno soltanto lo scopo di riciclare il denaro della droga. In alcune di queste imprese sono protagonisti i coniugi Ciller. Ancora: sempre prima di Susurluk, la rivista turca «Gamk» il 27 giugno 1996 riportava le dichiarazioni di Carpentieri sul lavaggio di denaro sporco in Turchia commentando: «Molti orga­nismi internazionali hanno già definito la Turchia paradiso del denaro nero. Le banche turche e circa 80 banche impiantate nel piccolo territorio di Cipro nord sotto occupazione turca sono famose per la loro efficacia nel lavaggio di somme gigantesche di denaro della mafia turca e russa».

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La caduta del premier Yilmaz alla fine del 1998
è dovuta alla sua responsabilità, condivisa con il ministro dell'economia, nella tentata vendita della TTB, la più importante banca pubblica da privatizzare, a un notissimo criminale mafioso, Alaattin Cakici, per un terzo del valore reale, e anche della tentata vendita dei due quotidiani più diffusi, «Hurriyet» e «Milliyet», ad altre personalità mafiose. Nel tentativo di difendersi, Yilmaz chiama in causa la polizia, i servizi segreti (che sarebbero stati schierati dalla parte del notissimo boss) e l’ammiraglio Guven Erkaya, uno dei più potenti esponenti dell'esercito kemalista, considerato il custode dei valori della nazione.

Alle accuse che piovono da ogni parte, il regime turco reagisce accusando il PKK di narcotraffico. Un'accusa a cui nessuno crede più, e in primo luogo i giudici che da decenni si occupano di processi per mafia e droga e le istituzioni internazionali per la lotta al narcotraffico. Si cerca quindi di incidere almeno sull'opinione pubblica dei paesi europei meno informati, con campagne di stampa pubblicitarie condotte, come si e visto in Italia, con "re­dazionali" più o meno mascherati da servizi giornalistici accom­pagnati da costose inserzioni su grandi quotidiani. Il movimento kurdo non è implicato nelle attività criminose della mafia turca, i cui proventi servono a finanziare la guerra in Kurdistan, e anzi le contrasta. Il PKK utilizza altri mezzi per finanziarsi, come spiega un'inchiesta del «Turkish Daily News», apparsa il 16 ottobre 1998. Il giornalista Mustafa Erdogan scrive che il PKK è un attivo imprenditore commerciale in molti paesi, «dal Giappone al Cana­da. Il PKK – dice l’articolo – fonda imprese in comune o diventa socio di compagnie di proprietà kurda. Inoltre riceve contributi mensili dai kurdi della diaspora e organizza frequenti incontri con larghissima partecipazione di simpatizzanti, in cui arriva a racco­gliere – come in Olanda nel settembre 1998 – dodici milioni di marchi, pari a 2,40 trilioni di lire turche [[[NOTA: Dopo la kwanza angolana, la moneta turca è la più deprezzata del mondo]]].

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Altre entrate derivano, da una sorta di monopolio stabilito dal PKK nell'importazione di merci elettroniche in Medio Oriente, dove le limitazioni imposte dai governi o da blocchi economici alimentano il contrabbando. Le imprese di cui il PKK
è socio sono di diverso tipo, tutte legali e molte anche importanti – continua Erdogan – e spaziano dalle società di elettronica ai ristoranti, ai supermercati. Il PKK guada­gna milioni di dollari soltanto dalle società in Germania».

Nei mesi di totale subbuglio seguiti al caso Susurluk – un'indi­gesta torta scandalistica sulla quale il giudice di Francoforte aveva aggiunto la ciliegina avvelenata del nome "Ciller" – i media turchi si scatenano incuranti delle prevedibili conseguenze giudiziarie. Così il quotidiano «Hurriyet», il 23 gennaio 1997, pubblica un editoriale del direttore che, dopo aver esposto le provate compli­cità tra grandi mafiosi e istituzioni turche fotografa in modo folgorante l’abnorme situazione: «Ormai – scrive Ozkok – il nome del nostro paese figura da una parte a fianco degli stati terroristi e dall'altro a fianco dei narcostati. Ii peggio è che non c' è un altro stato che sia coinvolto contemporaneamente nel traffico di stupe­facenti e nel terrore».

Le radici del male affondano nel nazionalismo esasperato del potere turco e sono quindi intrecciate con la questione kurda. Abdullah Catli è un personaggio esemplare del complicato intrec­cio tra il potere, il terrore e la mafia che vede agire sulla scena internazionale una schiera di criminali dello stesso suo calibro sostenuti non soltanto dalle manovre di servizi segreti ma anche, apertamente, dai vertici istituzionali. Catli debutta come membro di Gladyo nella componente turca della rete anticomunista creata nell'Europa occidentale alla fine della seconda guerra mondiale e smantellata quarant'anni dopo. Si distingue negli anni insanguina­ti che prepararono il golpe del 12 settembre, tra il 1976 e il 1980. Catli era il leader dei “Lupi grigi”, i "giovani" del partito di estrema destra MHP (Movimento d'azione nazionale). MHP considera elementi fondanti di un nazionalismo esasperato, mirante alla vittoria della "turchità" anche in campo internazionale, l’apparte­nenza sia alla razza turca sia alla religione islamica. MHP si alimenta di ideologia panturca; il suo fondatore e leader storico,il defunto colonnello Alparslan Turkes, chiedeva durante la guer­ra fredda il "ritorno" alla Turchia di territori turcofoni e islamici che facevano parte dell'URSS. All'estrema destra turca non è mai mancato il sostegno più o meno discreto della NATO e della CIA.. La CIA utilizzava i fanatici del panturchismo per innescare e alimentare conflitti antisovietici tra i musulmani turcofoni delle repubbliche asiatiche. Grazie a questa attività, durata quarant'an­ni, alcuni paladini della “Grande Turchia” sono diventati consiglieri dei nuovi governi sorti dopo la fine dell'URSS. Lo stesso Turkes si era insediato a Baku, capitale dell'Azerbaigian, creando un governo di simpatizzanti dei “Lupi grigi”, che nel 1993 minacciava di lanciare un attacco nucleare contro I'Armenia.

A Catli sono imputati gli omicidi di sette studenti e sindacalisti di sinistra, commessi in preparazione del golpe del 1980. Nono­stante sia "ricercato" perché colpito dai relativi ordini di arresto, Catli è rimasto sempre in libertà sul suolo della madrepatria.

Dopo il golpe Catli (che risulta tra l'altro amico del "gladiatore" italiano Stefano delle Chiaie) organizza l’evasione e la fuga in Europa di Mehmet Ali Agca, condannato per I'assassinio del direttore del quotidiano “Milliyet”. Agca, lupo grigio grande amico di Catli, è incaricato di assassinare il papa.

Ricercato, Catli si rifugia in Francia sotto falso nome e, al servizio dello stato turco, funge da spia e provocatore nei con­fronti degli ambienti kurdi e organizza una serie di attentati contro gli armeni. Il MIT lo paga in eroina, e Catli entra nel giro del narcotraffico; arrestato nel 1984, Catli ha confessato, nel corso del processo svoltosi a Roma nel settembre 1985 per l'attentato del 13 maggio 1981 in piazza San Pietro, di aver fornito al sicario l’arma usata per colpire il pontefice. Condan­nato in Francia a sette anni per traffico di droga, dopo quattro anni di carcere viene consegnato alla Svizzera, che lo richiede per lo stesso reato e che lo condanna di nuovo a sette anni. Nel corso dei processi in Europa, si scoprono gli stretti legami tra i “Lupi grigi”, la mafia turca e la CIA.

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Già nei primi anni '80 il magistrato italiano Carlo Palermo della Procura di Trento aveva messo in luce questi collegamenti mentre indagava su un contrabbando di armi ad alta precisione della NATO diretto dall'Europa occidentale in Medio Oriente. Spesso le armi erano pagate in eroina, che i “Lupi grigi” e i loro complici introducevano nell'Italia settentrionale e che quindi la mafia spe­diva in Nordamerica. In quegli anni gli Stati Uniti e 1'Europa erano inondati di eroina pura grazie all'attività della destra turca. Nel traffico un ruolo di rilievo era svolto dalla società Kintex, con sede a Sofia; la stessa Kintex era utilizzata dalla CIA per rifornire di armi la contra del Nicaragua. Per l’attentato al papa, la diplo­mazia americana aveva accreditato la "pista bulgara", inesistente, creata dalla stessa CIA. Lo storico-politologo Martin A. Lee, autore del libro sul risveglio del fascismo intitolato “The Beast Reawakens” (La bestia si risveglia) [[[NOTA: Little Brown, New York - London, 1997]]] nota che responsabile dell'uf­ficio romano della CIA, all'epoca dell'attentato al pontefice, era Dwane D. Claridge, il quale gestiva l’ufficio di Ankara nel corso degli anni '70, quando i “Lupi grigi” scatenarono un'ondata di attentati in cui morirono migliaia di kurdi democratici e di oppo­sitori turchi e che furono la premessa del feroce golpe del 1980. Come venne in seguito alla luce, si trattava di "operazioni specia­li" della Gladyo turca; ed erano dirette non contro gli inesistenti invasori sovietici ma contro l’opposizione interna democratica turca e kurda. Il Dipartimento della guerra speciale, con sede nella missione militare USA ad Ankara, ha sempre ricevuto non soltanto finanziamenti ma anche la collaborazione per l’addestra­mento dei killer da parte dei consiglieri americani. Già all'inizio degli anni '90 la stretta collaborazione tra “Lupi grigi”, forze anti­guerriglia e la CIA nell'attività di eliminate (spesso con la tortura) i militanti dell'opposizione era stata rivelata da un ufficiale in pensione, Talat Turkan, autore di tre libri su queste attività e accertata da un ex procuratore militare e membro della Corte suprema di giustizia turca, Emir Deger [[[NOTA: «Info-Turk Bulletin», febbraio 1993]]].

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D'altra parte, l'ufficialit
à delle missioni di Catli è vantata anche dallo stesso colonnello Turkes, che dopo la morte di Catli commenta con riverenza: «Catli ha collaborato con un servizio segreto che lavorava per il bene dello stato» [[[NOTA: «The New York Times», 19 dicembre 1996]]].

Catli dopo due anni di carcere in Svizzera evade grazie a potenti complicita e nel 1990 torna in patria, dove ufficialmente rimane un pluriomicida ricercato, passibile della pena di morte. Viene arruolato dalla polizia per "missioni speciali". Tra queste c'è l’eliminazione delle persone che figurano nella "lista di Ciller".

Il 4 ottobre 1993, la premier Tansu Ciller aveva rilasciato una clamorosa dichiarazione: «Noi conosciamo, aveva detto, la lista degli uomini d'affari e degli artisti che forniscono denaro al PKK, noi gliene chiederemo conto». La "lista rossa di Ciller" era una condanna a morte. A partire dal gennaio del 1994, un centinaio di imprenditori e di personaggi di successo nel campo dell'arte e dello spettacolo di origine kurda vengono l’uno dopo l’altro sequestrati da commando di agenti in uniforme, a bordo di veicoli della polizia. Tra i capi di questi commando c'è Abdullah Catli, il quale guida una delle principali unità di esecuzione sommaria delle "operazioni speciali" e trova anche il sistema di ulteriori guadagni personali. L'ex gladiatore infatti si fa consegnare da alcune delle vittime designate grandi somme di denaro con la promessa di cancellarle dalla lista, e poi li fa sequestrare, tortura­re, uccidere. Un testimone il 25 agosto del 1996 assiste al rapimen­to di uno di essi (la sua esecuzione era stata dilazionata, per consentirgli di versare a Catli un totale di 27 milioni di dollari) e denuncia i rapitori alla polizia di Istanbul. Gli agenti arrestati vengono prontamente trasferiti a Ankara e messi al sicuro, per ordine personale del ministro degli interni Agar.

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Il testimone è ammazzato da sicari sconosciuti il 28 agosto. Le cento vittime della "lista Ciller" vengono tutte abbattute in una zona nota come "triangolo satanico": la localitil Koaceli, sulla strada tra Ankara e Istanbul, feudo della mafia di estrema destra e base del traffico di droga verso l'Europa.

La carriera di Catli, morto nell'incidente stradale di Susurluk, si conclude con un toccante elogio funebre pronunciato di fronte al feretro avvolto nella bandiera turca da Tansu Ciller, che defini­sce un «grande patriota» il narcotrafficante pluriomicida implica­to nell'attentato al papa.

Sul caso Susurluk e sulle conseguenti rivelazioni il Dipartimen­to di stato americano rifiuta ogni commento: si tratta di affari interni di un paese sovrano.

Il governo, che dopo lo scalpore del caso Susurluk si era impegnato a sbrogliare la matassa del terrore di stato, procede svogliatamente, come notano i media, che si erano esposti come non mai nelle critiche al regime. I processi dell'ex ministro degli interni Mehmet Agar e del deputato Serdat Bucak iniziano soltan­to nell'aprile 1998. Nel settembre dello stesso anno un altro ministro, Eyup Asik, si dimette: risulta legato al boss Alaattin Cakici, che era stato catturato all'estero e trovato in possesso di un regolare passaporto diplomatico. Le "gang dello stato" su cui si erano accesi i riflettori nel novembre 1996 e che ancora annove­rano tra i capi personaggi dello stampo dell'ormai miliardario Yesil, nel 1998 non risultano ancora smantellate, come rilevano con indignazione la scarna opposizione parlamentare e gli organi di informazione dopo l'attentato a Birdal. Nel mirino, continuano a rimanere i giornalisti che insistono a indagare sulla mafia di stato; i procuratori hanno grandi difficoltà a resistere alle pressio­ni dei superiori; tra gli altri, è processato e condannato anche Dogu Perincek, il leader di IP, che aveva per primo denunciato la mafia di governo.

«L’incidente del 3 novembre 1996 – scrive Martin A. Lee – ha rivelato il ruolo di Catli nella repressione dei kurdi. Tra le lamiere

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della macchina si è rinvenuta la prova di ciò che molti giornalisti e militanti dei diritti umani sospettavano da tempo: tutti i governi che si sono alternati alla guida della Turchia hanno protetto i narcotrafficanti, dato rifugio ai terroristi e finanziato bande di assassini per eliminare i dissidenti turchi e i ribelli kurdl» [[[NOTA:  «Le Monde Diplomatique», “Les liasons dangereuses de la police turque”, marzo 1997. Ulteriori informazioni sugli argomenti di questo capitolo si trovano in «Le Monde Diplomatique», luglio 1998, “La Turquie plaque tournante du trafic de drogue”; nell'inchie­sta giornalistica di Oktay Yildiz “La mafia turca e la droga”, tradotta dal turco dal Comitato Kurdistan di Bruxelles, marzo 1997; nel libro di Frank Bovenkerk e Yucel Yesilgoz “The Turkish Mafia”, Universita di Utrecht, maggio 1998, in cui si dimostra che la mafia turca «è formata da un insieme di reti di criminali che operano apertamente e sotto gli auspici del governo e di diversi movimenti politici»; e in «Le Monde», “Les beaux jours de la mafia turque”, 1° ottobre 1998]]].

 

Le vittime senza nome della distruzione dei villaggi

 

Lo stato turco investe ogni anno miliardi in dollari per i servigi delle due più famose agenzie di pubbliche relazioni americane, che operano su scala internazionale. Lo scopo è quello di ripulire la propria immagine. Abbiamo assistito negli anni '90 alla forsen­nata competizione di Ankara per ottenere che il titolo di "Perso­naggio del secolo" attribuito dalla rivista «Time» andasse ad Ataturk; all'istituzione di un premio per la Pace “Kemal Ataturk”, fragorosamente crollato quando il primo insignito, Nelson Man­dela, lo respinse motivando il rifiuto con la tragedia kurda (con corollario di indecenti commenti di alcuni media, compreso un classico "sporco negro" all'indirizzo del prestigioso presidente sudafricano); e infine, nel 1998, all'istituzione di un premio per la Pace e la Democrazia, consegnato, per non correre altri rischi..., all'esercito turco, esecutore della distruzione di migliaia di villaggi e piccole città nel Kurdistan.

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Una catastrofe umana e ambientale che le associazioni umanitarie e le organizzazioni kurde di tutto il mondo avevano tentato di fermare con innumerevoli rapporti e denunce ai politici e alle istituzioni internazionali. Inutilmente. In un estremo tentativo, di trovare ascolto, le organizzazioni umanitarie avevano acquistato le costosissime pagine pubblicitarie di «Le Monde» e di «Internatio­nal Herald Tribune». Le ONG non dispongono dei potenti mezzi impiegati da Ankara nelle pubbliche relazioni; riuscirono a far uscire un paio di inserzioni, nel giugno del 1994. Una di esse conteneva l’elenco – impressionante – di nove città e di circa mille villaggi abbattuti, ricordava che in tal modo metà della popolazio­ne del Kurdistan era stata dispersa. La pagina delle ONG (come la precedente, uscita in aprile, per fermare la pena di morte a cui rischiavano di essere condannati sei parlamentari kurdi arrestati per reati d'opinione) documentava anche le atrocità commesse dallo stato turco negli ultimi due anni, in particolare le "esecuzio­ni extragiudiziali" di migliaia di democratici. Il drammatico appello rivolto al mondo intero non riusci a fermare la tragedia. Valgono, per gli operatori dei diritti umani costretti all'impotenza, le parole di Erodoto: «Il più odioso dei dolori umani è capire molto ma non potere nulla».

In confronto ad altre catastrofi che coinvolgono milioni di sventurati, quella kurda è particolarmente crudele per il divieto assoluto posto da Ankara a un'assistenza internazionale e per il silenzio che circonda una pratica atroce durata quasi un decennio, e che ancora continua. Le organizzazioni umanitarie, compresa la “Croce rossa internazionale”, non hanno accesso in Turchia per soccorrere la popolazione. La disperata diaspora dai villaggi di­strutti – un disastro anche ambientale che ha travolto con il ferro e con il fuoco bestiame, pascoli; foreste, un ambiente agricolo, pastorale e urbano di radici antichissime – proseguiva, con il suo carico di dolore, morte, devastazione mentre a occidente dello stesso paese, a Istanbul, si teneva la Conferenza dell'ONU sul­l'ambiente "Habitat II", inaugurata il 14 giugno 1996. Lo svolger­si di questo evento proprio in Turchia, nonostante gli appelli contrari delle organizzazioni umanitarie, dei democratici, delle associazioni kurde, ha assunto il senso di una volontaria profana­zione del dolore di milioni di esseri umani e di sprezzo per i valori ambientali e culturali tutelati dalla conferenza stessa.

La maggior parte dei villaggi e delle città di media grandezza è stato distrutto nel biennio 1992-94. Lo svuotamento del Kurdi­stan tuttavia è cominciato ben prima, nel 1984, è continuato su vasta scala fino al 1997 e prosegue, nel 1999, sia con vere e proprie distruzioni in distretti non desertificati negli anni precedenti, sia con azioni più limitate, come l’incendio di piccole frazioni e di singole case, e con il proseguimento del “Progetto Anatolia del sud-est” (GAP), il progetto di grandi dighe in Turchia. Le motiva­zioni – o meglio, i pretesti – sono stati diversi. Sono sempre in vigore le leggi degli anni '20 e '30, che consentono la deportazione dei kurdi dell'est per motivi di ordine pubblico. Negli anni '80 è stato varato il GAP, che ha espropriato e costretto all'esodo decine di migliaia di contadini kurdi per realizzare un mastodon­tico progetto di dighe che, sfruttando le sorgenti e gli altri corsi dell'Eufrate e del Tigri, rende la Turchia padrona assoluta delle acque del Medio Oriente. Secondo la “Commissione per i diritti umani” dell'ONU del 1990 «in seguito alla costruzione delle dighe circa 200 mila kurdi sono stati espropriati e deportati senza compenso alcuno e costretti ad abbandonare il Kurdistan. Il piano dello stato turco mira soprattutto allo spopolamento del Kurdistan [...] I kurdi sono i veri destinatari del progetto [...] ridotti alla fame, occupati come braccianti nelle piantagioni di grossi proprietari in condizioni di schiavitù. [...]. Mezzo milione di kurdi verrà espropriato [...] La diga Ataturk da sola inonderà almeno 155 villaggi». Un'ulteriore fase del GAP è iniziata nel 1999, coinvolgendo, per la costruzione della diga Ilisu, altre parti del Kurdistan con conseguente evacuazione forzata di una molti­tudine di piccoli agricoltori kurdi, la devastazione del territorio, pericolosamente snaturato dal punto di vista ambientale e annien­tato nelle sue memorie storiche: tra le vittime del GAP ci sono

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Samsat (per gli antichi greci Samosate, patria del filosofo Lucia­no), città ininterrottamente abitata da settemila anni, e Hasankeif, anch'essa antichissima e ricca di memorie di diverse epoche e c'e la piana di Harran, legata alla vita del patriarca Abramo [[[NOTA: Informazioni sul GAP (Guneydogu Anadolu Projesi) in L. Schrader, I fuochi del Kurdistan, Roma 1995, e nella campagna contro la diga di Ilisu lanciata nei primi mesi del 1999 da "Un ponte per Diyarbakir", la cui responsabile, Anna Marconi, ha pubblicato articoli sul quotidiano «Liberazione» e sul periodico «Guerre e pace» nel marzo 1999]]].

Un altro strumento di distruzione è l'istituzione turca dei "guardiani dei villaggi". Per contrastare il PKK, il regime arma e copiosamente finanzia gli uomini dei villaggi organizzando così una controguer­riglia fratricida e operazioni di spionaggio. Questa istituzione, che si colloca tra le peggiori del colonialismo, è la causa delle accuse mosse alla resistenza kurda di agire contro "i civili": negli attacchi contro i guardiani, è accaduto che rimanessero vittime dei razzi kurdi sparati contro i villaggi anche i familiari dei belligeranti.

Dalla fine degli anni '80 sono diventati rari i villaggi che accet­tano il ruolo militare imposto dal regime, e questo rifiuto autoriz­za i militari turchi a distruggere i borghi renitenti e a uccidere, arrestare, torturare e far sparire alcuni abitanti, mentre gli altri vengono dispersi. Il rapporto per il 1998 del “Dipartimento di stato” americano sui diritti umani in Turchia così descrive la situazione: «Poiché in grandissimo numero i villaggi sono stati evacuati e i combattimenti si sono ora spostati alle montagne, le forze di sicurezza del governo hanno evacuato e distrutto meno villaggi rispetto agli anni precedenti. Il governo ha dichiarato che lo scopo dell'evacuazione era di proteggere i civili o di impedire che la guerriglia del PKK ottenesse supporto logistico dagli abitanti. Alcuni abitanti dei villaggi affermano che le forze di sicurezza li hanno evacuati per il loro rifiuto di aderire al sistema paramilitare dei guardiani di villaggio». Su questo punto, il rapporto prosegue: «Il governo arma, organizza e paga una forza di difesa nota come “guardie dei villaggi”. La partecipazione degli abitanti a questa

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milizia paramilitare teoricamente è volontaria, ma essi sono presi tra due fuochi. Se gli abitanti sono d'accordo nel prestare servizio, il PKK potrebbe attaccare loro e il villaggio. Se il villaggio rifiuta, le forze di sicurezza governative possono compiere azioni di rappresaglia e evacuare il villaggio con la forza e non permettere che gli abitanti vi facciano ritorno. Le guardie dei villaggi hanno fama di essere le meno addestrate e disciplinate tra le forze di sicurezza governative e sono state ripetutamente accusate di cor­ruzione, reati comuni e violazioni dei diritti umani [...] come le esecuzioni di civili e gli stupri [...] insieme alla ‘Jandarma’ e alle "squadre speciali" della polizia». Le stesse parole, più o meno, che si trovano nei rapporti del “Dipartimento di stato” degli USA degli anni precedenti.

Dalla stessa fonte – e cioè il Ministero degli esteri degli Stati Uniti, i più pervicaci sostenitori del regime turco sulla scena internazionale – arriva, contro Ankara, la denuncia di ridurre alla fame alcune città e villaggi kurdi. «Il governo – si legge nel rapporto per il 1988 – ha razionato il cibo e altri beni essenziali nelle province di Tunceli e in parte di quelle di Diyarbakir e Bingol, causando una durissima carestia e gravi difficoltà tra la popolazione. [...] In Tunceli il razionamento continua da diverso tempo [...] Le forze di sicurezza del governo sono ritornate per evacuare i villaggi e hanno bruciato le case, per negarle al PKK». Nel rapporto per il 1997 era citato inoltre l’embargo della città di Lice, dove numerosi abitanti erano stati incarcerati per aver rifiu­tato di servire come guardiani: «Nulla si sa della loro sorte, essendo stato vietato l’accesso a Lice a organizzazioni per i diritti umani e giornalisti» diceva il rapporto del 1997, che ricordava anche la località di Tepe, assediata e affamata dall'esercito per due mesi, per vendicare l'uccisione di un guardiano di villaggio, pre­cisando: «Tra i beni razionati, di cui si avverte con crudezza la mancanza, ci sono i medicinali e gli strumenti chirurgici».

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La responsabilità del coinvolgimento dei civili kurdi nelle ope­razioni militari spetta dunque interamente ad Ankara. La resistenza kurda ha chiesto in tutte le sedi internazionali che la Turchia ponga fine a questo sistema e ha aderito nel 1995 alla Convenzio­ne di Ginevra per la tutela dei civili ‘hors de combat’. Il sistema delle guardie dei villaggi è stato più volte condannato in risoluzioni del Parlamento europeo e infine dallo stesso Consiglio d'Europa, di cui la Turchia fa parte, e nonostante la formidabile offensiva di Ankara per bloccare il provvedimento. La Direttiva 545 adottata il 25 giugno 1998 dal Consiglio d'Europa chiede tra I'altro ad Ankara di abbandonare il sistema dei guardiani dei villaggi, pagati dal governo.

Ankara persiste, sorda a ogni richiamo, continuando a definire il genocidio kurdo un problema di terrorismo e a considerare i richiami internazionali al rispetto dei diritti umani come una fastidiosa interferenza che allunga i tempi della soluzione finale: «Potremmo farla finita con il terrorismo, ma la democrazia e i diritti umani ci rallentano», disse il generale Ahmet Çörekci, deputato e capo di stato maggiore, nel luglio 1995. A distanza di alcuni anni, questa rimane la risposta delle istituzioni.

Un altro motivo di devastazione ed evacuazione è il voto: come nelle città, anche nei villaggi gli abitanti vengono avvertiti di non votare per i partiti filokurdi nelle elezioni politiche e amministra­tive, o di non andare a votare tout court. In caso di disubbidienza, frazioni, case e borghi vengono dati alle fiamme: e la prassi consueta, più volte denunciata dalle associazioni per i diritti umani e d'altra parte talvolta ammessa dalle stesse autorità turche, e si è verificata ancora nelle elezioni del 18 aprile 1999.

La popolazione kurda che vive in queste aree da tempo immemo­rabile è in parte condannata a morte sia nell'immediato - intere famiglie si sono suicidate ai margini delle grandi città o sulle strade dell'esodo, non avendo nessuna prospettiva di sopravvivere – sia a breve e a medio termine, per denutrizione, malattie e parti senza assistenza. Donne incinte, bambini e vecchi sono i primi a perdere la vita nell'inferno dei profughi dimenticati. Molti bambini restano soli. Per spiegare la situazione, può bastare un solo esempio.

In un villaggio vicino al confine iracheno viveva una famiglia composta da padre, madre e sei figli, il più grande di 11 anni. Il. padre era stato ammazzato dalle forze speciali governative perché aveva rifiutato di prendere le armi contro il PKK; due mesi dopo la casa in cui vivono con grandi difficoltà la vedova (incinta) e i bambini, viene incendiata dai militari che spingono gli infelici verso la più vicina strada. Come avviene sempre in questi casi, la vedova non soltanto ha perso ogni avere, ma anche i documenti che provano la proprietà della casa e della terra. La città più vicina, Cizre, è semidistrutta; la famiglia riesce ad accamparsi tra le macerie. La donna provata dai maltrattamenti, abortisce. I bambini si rivolgono agli onnipresenti militari che sorvegliano la zona, ma nessuno è in grado di soccorrere la donna, che muore di emorragia. I militari rimettono i bambini sulla strada, ed essi, dopo alcuni chilometri di marcia, riescono a farsi accompagnare nella grande città, Diyarbakir, da un camionista compassionevole. Qui tentano di sopravvivere frugando tra i rifiuti in cerca di cibo o chiedendo l’elemosina, tra un milione di altri disperati come loro. Il più grande del gruppo ha la fortuna di incontrare una operatrice di IHD che svolge una ricerca sugli espulsi dai villaggi, alla quale racconta la sua storia (simile per altro a quella di altri bambini) e di rintracciare per suo tramite lontani parenti che – pur vivendo poveramente – si prendono volentieri cura dei sei orfani. Ma ben poche sono, purtroppo, le storie con (relativo) lieto fine dei senzatetto. Nessun aiuto o assistenza è fornito dal governo ai disperati scacciati dalle loro case distrutte. Qualche aiuto è stato offerto dalle organizzazioni religiose e dai volontari di IHD, ma per le enormi proporzioni del disastro la loro opera appare come una goccia nell'oceano. Quando sono i profughi stessi a organizzarsi in mutuo soccorso, intervengo le autorità, a sciogliere le cooperative e a incriminarne i soci per "separatismo": è accaduto ad esempio, agli inizi del 1999, a Mersim, porto meridionale dove, come in tutte le città, è confluita una massa di senzatetto kurdi. Anche l'associazione Goc-der, fondata a Istanbul per fornire aiuto ai profughi, subisce continue perquisizioni, ordini di chiusura e arresti dei suoi addetti e perfino dei suoi assistiti.

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Alcune migliaia di profughi, i cui villaggi erano stati distrutti perché gli abitanti si rifiutavano di combattere contro il PKK, si erano riversati nel 1995 oltre confine, nel Kurdistan iracheno, aggiungendosi alle migliaia di senzatetto locali, che erano assistiti dall'ACNUR nei pressi di Atrush. Con il passare degli anni, i profughi kurdo-iracheni erano stati assorbiti nei villaggi e nelle città. Sotto la bandiera dell'ONU rimasero, ma per poco, i profu­ghi kurdi dalla Turchia: ben presto l’ACNUR li abbandonò al loro destino cedendo alle pressioni di Ankara; i profughi "di Atrush" rimangono senza aiuti umanitari, dispersi qua e là nel Kurdistan meridionale.

Alla fine del secolo, gran parte del Kurdistan agricolo e monta­no è quasi interamente spopolato. Nei villaggi ancora esistenti stazionano forze militari, più numerose dei contadini che riman­gono. Nelle città sopravvissute, come Hakkari, interi quartieri sono riservati ai militari, circondati da filo spinato e da postazioni di mitragliatrici. Gli insegnanti non possono essere kurdi: il divie­to è assoluto, e quindi gli incaricati arrivano da lontano, non conoscono la lingua kurda e vivono in edifici riservati, completa­mente isolati dalla popolazione locale. La città e il distretto di Hakkari a partire dalle ore 16 sono isolate dal resto della Turchia: è proibito assolutamente l’accesso, e le forze di sicurezza possono agire indisturbate. Al di fuori di alcune città, la situazione scola­stica è disastrosa: nella regione in stato di emergenza sono state chiuse negli ultimi anni oltre 3 mila scuole e le associazioni kurde calcolano che soltanto un quinto del bambini in età scolare rimasti (il cui numero è valutato in 167.000) abbiano accesso all'istruzio­ne. Spesso per frequentare una scuola i bambini devono compiere lunghi tragitti in località innevate per diversi mesi all’anno, ed è costante il pericolo delle mine, che uccidono o mutilano numero­se piccole vittime. Esistono però ancora le "scuole speciali di assimilazione", collegi per figli e per orfani di guerriglieri e attivi­sti uccisi o incarcerati; sono collegi in cui vivono per il periodo dell'istruzione obbligatoria – secondo i dati delle associazioni turche e kurde – 12 mila bambini e ragazzi, sottoposti a un violento indottrinamento dell'ideologia della "turchità".

Nei villaggi e nelle città rimaste, dove ci sono due o tre militari per ogni civile kurdo, gli abitanti subiscono continue vessazioni, come la distruzione degli oggetti di casa e delle provviste alimen­tari; sono convocati e "interrogati" in continuazione dalla gendar­meria ed è anche per esasperazione che molti se ne vanno in montagna, alla ricerca di un gruppo del PKK. In alcuni distretti, per quanto massicciamente evacuati, come quello di Tunceli (Der­sim), è vietato coltivare i campi e allevare animali ed è in vigore l’embargo dei viveri e dei medicinali, rigorosamente razionati e forniti in quantità inferiori al bisogno. La situazione è stata più volte denunciata da deputati del Parlamento turco e da alcune organizzazioni internazionali, ma inutilmente.

Ad alcune (vaste) regioni, come quella di Ovacik, è rigorosa­mente impedito laccesso. Qui l’esercito ha potere di vita e di morte, come altrove nel Kurdistan, ma al riparo da ogni sguardo. Poiché la repressione è comunque intensissima ovunque nel sud­-est, anche e soprattutto nella "capitale" Diyarbakir, sorge il dub­bio che nelle regioni off limits sorgano le raffinerie di oppio citate dai rapporti delle organizzazioni internazionali antidroga. Tra le piccole città che esistono ancora c'è Yuksekova, annidata tra due confini, un tempo borgo sonnacchioso, oggi rinominata Heroin City. Tra le zone desertificate vi sono aree ad alta vocazione agricola, foreste e pascoli preziosi. Ma la Turchia può permettersi di fare a meno dei prodotti agricoli e dell'allevamento: il narco­traffico è una risorsa assai più redditizia. Dall'alto dei suoi monu­menti, immancabili nelle città distrutte come in quelle finora risparmiate, Kemal Ataturk sorveglia il passaggio dei mezzi mili­tari carichi di droga.

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E’ una caratteristica turca quella di ammantare, ove possibile, di legalità le operazioni pi
ù atroci, e di adottare, sia pure elastica­mente, procedure "democratiche". Dopo aver brutalmente sradi­cato dalle loro case e dalla loro terra milioni di sudditi inermi, il regime si concede un bilancio dell'operazione. E così il prefetto della regione in stato di emergenza conteggia il numero di villaggi di cui e stata completata l’evacuazione alla data del 30 novembre 1997 e fornisce alla “Commissione parlamentare delle migrazioni” il relativo rapporto di 120 pagine «sulla situazione sociale, educati­va e sanitaria nelle province del sud-est». Situazione brillantemen­te affrontata mettendo per la strada o sotto un telo di plastica nelle bidonvilles dell'ovest gli abitanti di 3.428 tra villaggi e frazioni, secondo le tabelle del prefetto. I deputati provenienti da quel­l’area completano però i dati ufficiali aggiungendo altre località al triste elenco, per un totale di 3.828 centri distrutti e/o evacuati. Il numero dei disperati varia, secondo le stime, tra i 3 e i 5 milioni di persone. Non è possibile conoscerne esattamente il numero perché per la Turchia sono "migranti economici interni" e con questa etichetta sottratti a ogni aiuto umanitario. Secondo un rapporto dell' “Ordine degli architetti e degli ingegneri” la città di Diyarbakir ha raddoppiato la popolazione in cinque anni, rag­giungendo il milione di abitanti; altre stime indicano cifre molto superiori. La soglia di poverta in Turchia è indicata nella disponi­bilità di circa 400 dollari all'anno, in Kurdistan di circa 200 dollari e nei capoluoghi del Kurdistan in cui si ammassano i profughi, che arrivano a quadruplicarne la popolazione (Diyarbakir, Van, Hakka­ri) secondo il rapporto della Commissione migranti del Parlamen­to turco, molte famiglie sopravvivono con 70 dollari all'anno. E’ nota la situazione di Istanbul, ai cui margine in una sconvolgente bidonville vivono, secondo le stime di organizzazioni umanitarie, milioni di kurdi sradicati, soprattutto nel tetro "sobborgo" di Gazi, i cui abitanti vengono continuamente presi di mira dalle forze di sicurezza. Tra gli abusi per cui era imputato l’ex ministro degli interni Mehmet Agar c'e appunto anche la feroce repressio­ne di una manifestazione contro l’aumento del prezzo del pane a

Gazi, nel 1995, durante la quale la polizia aggredì, uccise e ferì decine di persone. Ma "i migranti" sono approdati un po' ovun­que in Turchia; quelli che hanno parenti in Europa in grado di pagare loro il viaggio sono arrivati in Grecia, in Italia, in Albania per proseguire verso altri stati europei. Quella degli anni '90 è la più grande operazione di deportazione compiuta dalla Turchia dagli anni '30. Nata all'inizio con il pretesto di punire i villaggi i cui abitanti si rifiutavano di fungere da "guardiani" contro il PKK, l’operazione ha abbandonato ben presto questa fragile motivazione e ha mostrato il suo volto di pianificato sterminio, truccandolo infine – con un’arroganza giustificata dalla complici­tà dei governi amici – da volontaria migrazione economica delle vittime. Costretti a lasciare le loro case distrutte, gli armenti bruciati vivi, i campi e i pascoli devastati e incendiati senza portare nulla con sé, la maggior parte delle vittime ha perso perfino i documenti di identità e di proprietà di case e terreni. L’obiettivo di disperdere il popolo kurdo, di condannare i profughi a morire di miseria e di annientare l’identità dei sopravvissuti è alla fine degli anni '90 in buona parte raggiunto.

Un'inchiesta a campione condotta da IHD nel 1994 tra la gente dei villaggi rifugiata a Istanbul, Bursa e Mersin ha fornito questi dati: all'89,1% era negata un'abitazione normale, al 78,9% era stato negato un lavoro a causa dell'origine kurda, il 71,5% aveva subito almeno un arresto, sempre a causa dell'identità kurda. Un'altra indagine compiuta da IHD a Istanbul nel 1995 registrava un tasso di disoccupazione del 96%, i profughi privi di abitazione risultavano essere il 92 %; tra essi, il 75 % denunciava problemi di razzismo. Il 45% dei profughi è analfabeta e soltanto il 42% dei bambini in eta scolare primaria ha accesso all'istruzione.

Sulle strade della Turchia, fuori dal Kurdistan, vaga mezzo di milione di kurdi, in gran parte bambini. Vivono in scatole di cartone, trovano lavoro stagionale nei campi, sottoposti a tutte le angherie del caporalato.

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Erano famiglie che vivevano dignitosa­mente in case e fattorie, coltivando da generazioni i campi e allevando le greggi, o che possedevano botteghe artigianali e piccoli esercizi commerciali spesso per tradizione ereditaria, lega­te da una fitta e solidale rete di rapporti di parentela e di amicizie che costituiva il tessuto della società kurda. Ora sono una torma sradicata e smarrita. I bambini, che prima e oltre la scuola impa­ravano in famiglia la lingua materna e i canti del ricchissimo folklore kurdo, sono precipitati come gli adulti in un inferno di miseria e di alienazione. Dall'età di nove anni i bambini lavorano 12 ore al giorno nei campi a raccogliere legumi o frutta, sotto un sole da capogiro, o con ogni tempo sulle strade a offrire sigarette e fazzolettini, o ancora nei laboratori di confezioni senza nessuna speranza se non quella di portare a termine una giornata dopo l’altra. Un ultimo dato dell'indagine di IHD: il 99% dei "migranti economici" sogna di ritornare in Kurdistan.
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6. I kurdi nel nuovo ordine mondiale

 

Il popolo kurdo e le armi del Pentagono

 

Dopo la guerra del Golfo, che ha lasciato Ankara arbitra delle sorti dei kurdi iracheni, l'amministrazione americana del demo­cratico presidente Clinton ha continuato e intensificato il sostegno alla distruzione del popolo kurdo in Turchia. Il fatto, pur se occultato dai media, non sfugge ad alcuni osservatori americani, come dimostra l’articolo “La guerra della Turchia contro i kurdi” apparso sulla rivista statunitense «The Atomic Scientists» a firma di Kevin Mc Kiernan il quale scrive tra l’altro:

 

La guerra in Turchia è l'unico esempio al mondo di un amplissimo uso di armamenti degli Stati Uniti da parte di forze non americane, secondo Bill Hartung del World Policy Institute. Non riesco a pensare a nessun altro esempio, dall'invasione israeliana del Libano nel 1992 in poi – egli dice – in cui l'arsenale americano abbia avuto un utilizzo così intenso e concentrato. In 15 anni di combattimenti in Turchia sono andate perdute circa 40 mila vite umane, più che nei conflitti della West Bank e dell'Irlanda del Nord messi insieme. I due milioni di rifugiati prodotti dalla guerra in Kurdistan sono pressappoco equivalenti, come numero, ai senzatetto creati dalla guerra in Bosnia, ampiamente riferita dai media, in cui gli armamenti americani non erano un fattore determi­nante. Invece, il 75% dell'arsenale turco è fabbricato negli Stati Uniti, secondo stime accreditate. Nonostante questi dati, la guerra civile in Turchia è stata scarsamente trattata dai media americani. La televisione

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raramente menziona i kurdi, a meno che non si tratti dei kurdi in Iraq [...] I kurdi in Turchia sono "cattivi" perché si oppongono a un alleato degli Stati Uniti. Non ha importanza che i kurdi in Turchia siano quattro volte più numerosi che in Iraq o che entrambe le popolazioni abbiano patito una dura repressione da parte dei rispettivi governi.

Dal 1980 gli US hanno venduto o regalato alla Turchia – un alleato della NATO – 15 miliardi di dollari in armamenti. Nell'ultimo decennio l’esercito turco ha raso al suolo, incendiato, o evacuato con la forza più di 3 mila villaggi kurdi. Il che significa più o meno i tre quarti degli insediamenti kurdi distrutti in Iraq negli anni '80 durante l’infame campagna Anfal di Saddam Hussein, quando l’Occidente andava arrmando l'Iraq e guardava con occhi ciechi le estesissime violazioni dei diritti umani.

Gran parte delle distruzioni in Turchia avvenne tra il 1992 e il 1995, durante il primo mandato dell'amministrazione Clinton. Nel 1995 l’am­ministrazione riconobbe che gli armamenti americani erano stati usati dal governo turco in operazioni militari interne «durante le quali sono avvenute violazioni dei diritti umani». In un rapporto ordinato dal Congresso, il Dipartimento di stato aveva ammesso che gli abusi erano stati compiuti anche con l’uso di elicotteri Cobra, di blindati e di cacciabombardieri F16, tutti provenienti dagli Stati Uniti. In molti casi, interi villaggi kurdi erano stati cancellati dall'aviazione.

Il nostro governo aveva dovuto ammettere che la politica turca aveva costretto più di due milioni di kurdi a fuggire dalle loro case. Human Rights Watch, il gruppo di osservazione con sede a New York [...]. aveva detto che l’esercito turco armato dagli Stati Uniti era «responsabile per la maggior parte delle forzate evacuazioni e distruzioni dei villaggi».

 

L'autore racconta la lunga e travagliata storia che portò all'ap­provazione, nel settembre del 1998, del Leahy Amendment. Que­sta legge vieta di fornire aiuti militari e di finanziare l’addestra­mento di forze di sicurezza straniere che abbiano commesso gravissime violazioni dei diritti umani. Il Leahy Amendment con­tiene disposizioni molto attenuate rispetto al progetto di legge originario (relatrice la parlamentare Cynthia Mc Kinney), che aveva suscitato il forte ostracismo della Casa Bianca. «La prova del fuoco per questa legge — prevede Mc Kiernan — sarà la vendita alla Turchia, fino ad ora ostacolata dalle associazioni per i diritti umani, di elicotteri armati King Cobra e Apache per i quali è in corso la gara d'appalto. Ovviamente — osserva l’autore — se non dall'America, gli elicotteri saranno acquistati da paesi con meno scrupoli, come Francia, Russia, Israele (ma dimentica l'Italia, anch'essa in gara).

Un’altra prevista vendita è quella di 140 blindati americani APC che andrebbero ad aggiungersi ai 2.800 già posseduti dalla Turchia, e che sono destinati alle forze di sicurezza "antiterrorismo" (le virgolette sono nell'originale). «Amnesty International-USA — ri­corda Mc Kiernan — ha condotto uno studio di tre anni su queste squadre di polizia e lo aveva mandato al segretario di stato Made­leine Albright nel tentativo di bloccare il trasferimento». Il rapporto fornisce esempi di "unità antiterrorismo" ben identificate che tor­turano bambini, violentano sessualmente detenute, usano torture con elettroshock, pestaggi, ustioni, e quasi-affogamenti dei "sospet­ti" oltre a commettere altri macroscopici abusi. Tra le 280 vittime individuate e documentate ci sono neonati, bambini, vecchi. Ma nel dicembre scorso, nonostante tali prove il Dipartimento di stato ha approvato la vendita. A causa del Leaty Amendment da poco in vigore, sono state poste alcune restrizioni sull'uso dei prestiti degli Stati Uniti alla Turchia per l’acquisto degli APC destinati alle aree del conflitto, ma è stata autorizzata l’esportazione di tutti i 140 veicoli destinati alle squadre "antiterrorismo".

Questa operazione è stata coerente con le pratiche del passato, in cui tutti i contratti per le forniture di armamenti alla Turchia sono stati conclusi con grande solerzia. Nel 1992 e nel 1993 il Pentagono facilitò con estrema disinvoltura un colossale trasferi­mento alla Turchia a costo zero. Secondo i registri degli armamen­ti dell'ONU, il governo americano regalò ad Ankara 1509 carri armati, 54 aerei da combattimento e 28 elicotteri d'attacco pesan­temente armati. «Si trattava di armamenti da eliminare in seguito al trattato del 1990 sulla riduzione degli armamenti convenzionali

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in Europa dopo la guerra fredda; un analogo dono alla Turchia fu fatto dalla Germania. Come aveva rivelato "Jane's Defense Weekly" già nel 1993 – continua Mc Kiernan – quasi tutto questo equipaggiamento per la difesa fornito alla Turchia viene usato in operazio­ni contro il PKK».

«L’assistenza militare alla Turchia – continua Mc Kiernan – ha incluso perfino l’uso di soldati americani. L'anno scorso, secondo il "Washington Post", una squadra per le operazioni speciali autorizzata dal “Joint Combined Exchange Training Act”, una legge poco conosciuta approvata dal Congresso, ha compiuto la sua prima missione in Turchia. La squadra americana era stata inviata per addestrare i "commando turchi di montagna", unità la cui funzione è di combattere i guerriglieri kurdi.

La Turchia beneficia inoltre dell'International “Military Educa­tion and Training Program” del Pentagono, finanziato con i fondi per l'assistenza all'estero. Grazie a questo programma, dal 1984, quando cominciò l’insurrezione del PKK, al 1997, sono stati addestrati 2.500 ufficiali turchi. Bill Hartung del World Policy Institute dice che buona parte dell'addestramento si riferisce all'uso degli armamenti acquistati da società americane. Hartung osserva che i contribuenti americani hanno già pagato "Decine di milioni di dollari" per addestrare le truppe turche a combattere i kurdi» («The Atomic Scientists», marzo-aprile 1999, XXV, 2). In proposito, bisogna ricordare che, a parte il recente Leahy Amen­dment citato da Mc Kiernan, dovrebbe essere applicato in gene­rale, negli Stati Uniti, l'art. 502 B del Foreign Assistance Act, che proibisce il trasferimento di armi ai paesi in cui avvengono viola­zioni dei diritti umani. Ma aggrappandosi alle eccezioni previste da questa legge e in qualche caso superandola con la motivazione di interessi superiori della nazione, il governo americano ha sem­pre evitato di applicarla nei confronti della Turchia. Anche in Italia esiste una legge del genere, la 185 del 1990, ma nonostante le proteste delle associazioni pacifiste e per i diritti umani non viene utilizzata nei confronti di Ankara e in altri casi.

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Un altro americano, il giornalista del «Washington Post» Jona­than C. Randal ricorda che «Nel 1994, l'anno della più dura rcpressione nelle province kurde, la Turchia è stato il maggiore importatore di armi americane. Il suo arsenale, per 1'80% ameri­cano, comprendeva carri armati M-60, cacciabombardieri F16, grossi elicotteri Cobra e Black Hawk che furono tutti usati contro i kurdi. Washington fu imbarazzata quando le associazioni per i diritti umani rivelarono che gli F16 turchi avevano bombardato villaggi e provocato vittime fra i civili, ma una manovra del Pentagono evitò che l’amministrazione Clinton, applicando una legge specifica per questi casi, sospendesse le forniture di armi. (J. C. Randal, “After such knowledge, what forgiveness?”, New York 1997). Un diplomatico britannico nel corso della gigantesca ope­razione militare "Acciaio" lanciata contro i kurdi nel marzo 1995 confidò al «Turkish Daily News» che la Turchia si era avvalsa di strumentazioni NATO, come gli aerei rilevatori Awacs, e risulta che siano utilizzati anche i dati satellitari per individuare le basi della guerriglia. Randal osserva che negli anni '90 «alcune migliaia di soldati americani mantengono ancora in funzione le attrezzatu­re e gli impianti NATO per la raccolta di dati sparsi in tutta la Turchia» all'epoca della guerra fredda. Ma non è mai stata svolta alcuna inchiesta per accertare le presumibili complicità della NATO nello sterminio del popolo kurdo.

L'ampiezza e la frequenza delle operazioni militari compiute dalla Turchia anche fuori dei propri confini (con distruzione dei villaggi appena ricostruiti nel Kurdistan iracheno e degli ospedali gestiti dalla solidarietà internazionale e con centinaia di vittime tra i civili, come hanno denunciato più volte le organizzazioni uma­nitarie) vanno di pari passo con le forniture di armi. Ma non solo. La benevolenza concreta dimostrata nei confronti di Ankara con prestiti per gli armamenti e trasferimenti di armi anche a titolo gratuito dagli Stati Uniti e dai più ricchi paesi del mondo, quelli riuniti nel gruppo G7, è stata ed è determinante anche nel pro­muovere il terrore di stato contro i tentativi di arrivare a una

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soluzione di pace: ben 3.200 tra i circa 5.000 "omicidi misteriosi" compiuti dagli squadroni della morte turchi dal 1992 al 1997 sono avvenuti tra il 21 marzo del 1993 e la prima meta del 1994 e cioè dopo la tregua unilaterale proclamata (e rispettata per mesi) dal PKK e inutilmente appoggiata da personalità democratiche e associazioni di tutto il mondo.

La voce dei difensori dei diritti umani continua a rimanere inascoltata. Il settimanale specializzato «Jane's Defence Weekly» (26 maggio 1999) rivela che nel maggio 1999, pochi giorni dopo aver ricevuto la richiesta di autorizzazione da parte del Pentago­no, il Congresso americano aveva approvato la vendita di 50 elicotteri Black Hawk alla Turchia, mentre già fervevano i contatti tra le industrie statunitensi e i rappresentanti del governo di Ankara per l’acquisto di altri elicotteri da combattimento per il valore di 560 milioni di dollari. Sugli elicotteri già comprati, la Turchia intendeva installare i missili Penguin, prodotti dalla Nor­vegia: ma la Sikorsky, azienda produttrice dei Black Hawk e le autorità turche non erano riuscite a convincere la Norvegia, che rifiuta di vendere armi alla Turchia perché sa che esse vengono usate contro il popolo kurdo. Un esempio, questo, che dimostra come sia possibile, per un paese democratico, mantenere fede ai valori dell'etica senza temere ripercussioni sul piano economico: non risulta che i paesi scandinavi si trovino in crisi rispetto agli altri stati europei che, come l'Italia, continuano a vendere armi per la guerra di Ankara. La Turchia si è quindi accontentata di armare gli elicotteri con i missili Hellfire; un altro affare di 6,7 miliardi di dollari per i primi 84 missili, a favore dell'industria americana.

Nel 1995, la Turchia diventa parte integrante della vita politica americana. In seguito agli accordi di Dayton, a tutela dei musul­mani in Bosnia sono stanziate forze statunitensi. Il presidente Clinton, in vista della campagna elettorale (che si concluderà con la sua rielezione alla Casa Bianca, nel 1996) ritiene opportuno ritirare dalla Bosnia i militari americani. Può farlo, perché affida ad Ankara l’addestramento e l’organizzazione di un esercito mu­sulmano.

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Una svolta importante per il "nuovo ordine mondiale" è stato l'accordo siglato a metà del 1996 tra Ankara e Tel Aviv per la collaborazione militare (incluso l’uso di basi d'appoggio dell'avia­zione israeliana sul suolo turco) e tra i rispettivi servizi segreti MIT c Mossad. La ratifica del trattato, che potenzia i buoni rapporti esistenti da tempo tra i due paesi, era avvenuta addirittura sotto gli auspici del primo e finora unico capo di governo turco espresso dal partito islamico (Refah), segno che l’accordo era urgente e che in Turchia il diktat americano era tanto impellente da indurre gli islamici a tradire clamorosamente il proprio elettorato pur di accontentare Washington. L'asse USA-Israele estende così le sue potenzialità militari verso oriente e verso sud, anche grazie al conferimento delle necessarie tecnologie, da parte di Israele, alla già armatissima Turchia. Ad Ankara il nuovo assetto della NATO attribuisce compiti di intervento nelle circostanti aree di crisi.

Nella stessa epoca, secondo fonti mediorientali, si tessevano complicate trame tra Stati Uniti, Francia, Giordania, e perfino Iraq, per deporre il presidente siriano Assad, spina nel fianco per la sua intransigenza verso Israele e per il supporto fornito al PKK, unica forza combattente contro la potenza turco-americana nel­l’area. L'operazione di deposizione o eliminazione del presidente siriano, nonostante alcuni attentati compiuti da MIT e Mossad poco dopo l’accordo di collaborazione, e mirati sia contro Assad che contro Ocalan, non otteneva l’esito sperato. Intanto, ridotta in situazione di stallo la questione palestinese, diventava urgente completare l’eliminazione dei kurdi, un popolo le cui rivendica­zioni nel campo dei diritti umani, civili e politici, che si saldano a quelle dei democratici turchi, impedisce il completamento del progetto di supremazia americana sul Medio Oriente del petrolio e delle acque e sulle prospettive di ulteriore espansione a est. Infatti, soltanto una Turchia gestita dal pugno di ferro dei militari del Consiglio per la sicurezza nazionale, interessati non alla

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democrazia, alla pace sociale, all'evoluzione civile del paese ma unica­mente alla grandeur turca e agli immensi guadagni legati alle forniture militari, può garantire l'ubbidienza alle mire di uno stato straniero e più forte. L'accordo con Israele, fortemente voluto dagli Stati Uniti, è anche un'ulteriore dichiarazione di guerra, non soltanto al PKK ma alle aspirazioni democratiche del popolo kurdo; fin dagli inizi dei negoziati per la Palestina, l'amministra­zione americana aveva inserito, tra le richieste al presidente siria­no Assad, la cessazione di ogni sostegno al PKK, e non a caso il ministro della difesa israeliano, Itzahk Mordechai, di origine kur­da, si era dimesso perché contrario all'accordo tra Ankara e Tel Aviv.

Il periodo che va dall'accordo tra Turchia e Israele del giugno 1996 alla fine del 1998 viene utilizzato per completare la distruzio­ne di buona parte del Kurdistan e per costringere all'esodo milio­ni dei suoi abitanti. Nella seconda metà del 1998, nel silenzio delle associazioni ambientaliste, la Turchia inizia la costruzione di un'al­tra catastrofica diga, Ilisu («la più grande del mondo»), e inoltre avvia una serie di piani energetici per un valore complessivo di oltre 10 miliardi di dollari, che comprendono una centrale nucle­are e dieci centrali idroelettriche in collaborazione con i governi di Stati Uniti, Francia e Svizzera, e con i finanziamenti della US Eximbank (“AGI-Reuters”, 7 ottobre 1998). Progetti e investi­menti ragguardevoli, che si sarebbero potuti condizionare al ri­spetto dei diritti umani e a una soluzione politica della questione kurda. Quanto alla centrale nucleare, sorgono dubbi sul suo reale impiego civile, poiché i fatti hanno dimostrato che perfino i sistemi di dighe corrispondono alla funzione di armi strategiche nei confronti di Siria e Iraq e a quella di spopolamento e distru­zione del Kurdistan, piuttosto che alle sbandierate finalità di sviluppo agricolo.

Nello stesso periodo, la seconda meta del 1998, pare trionfare la volontà turco-americana di realizzare il progetto dell'oleodotto Baku-Ceyhan. Una delle più grandi operazioni politico-industriali

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degli ultimi anni riguarda i giacimenti petroliferi del mar Caspio e una delle più accanite contese riguarda la via per far arrivare il petrolio in Occidente da Baku in Azerbaigian. Tutti gli esperti, e in prima linea quelli delle compagnie petrolifere interessate, rac­comandano due alternative: attraverso Azerbaigian e Georgia fino al porto di Supsa sul mar Nero oppure attraverso Azerbaigian, Caucaso, Russia fino al porto di Novorossijsk, anch'esso sul mar Nero. Entrambe le rotte sono già dotate di oleodotti, da ampliare o completare. L'amministrazione degli USA si oppone con tutte le sue forze: in spregio alla Russia, un paese che vuole economica­mente in ginocchio e che quindi deve essere privato degli introiti delle royalties del passaggio petrolifero, ma anche per la costante rivalità americana nei confronti dell'Unione Europea. Washin­gton sponsorizza una quarta via: Baku-Ceyhan che attraversa l’Azerbaigian, sale in Georgia (per non beneficare l’Armenia, detestata da Ankara) e percorre da nord-est a sud-ovest il Kurdi­stan turco per sfociare a Ceyhan, nel golfo di 1skenderum. (Alessan­dretta). Questa rotta è considerata una pura follia: è lunga il doppio delle altre, deve essere costruita ex novo, con costi altissimi e la Turchia non dispone dei fondi necessari. Ma Washington la vuole a ogni costo per la valorizzazione dell'alleanza con Ankara.

Ancora una volta gli interessi egemonici degli Usa sono in conflitto con quelli dell'Unione Europea [[[NOTA: Attraverso il "corridoio 8", attrezzato con infrastrutture e tecnologie americane, gli Stati Uniti si sono già assicurati il controllo dei flussi commerciali e delle comunicazioni nei Balcani; lo smembramento della ex Jugoslavia, completato con la guerra per il Kosovo condotta dalla NATO egemonizzata dal Pentagono, ha consentito di ampliare il controllo di Washington sull'area.]]], che punta a ottenere petrolio a basso costo, più che a sostenere la potenza turca. «Per ragioni geopolitiche, l'amministrazione degli Stati Uniti è stata un alleato aggressivo della nella sua determinazione per l’oleodotto Baku-Ceyhan – scrive il «Wall Street Journal-Europe» (9 novembre 1999).

[[[NOTA: Tra le operazioni intraprese dal governo turco per ottenerlo, ci fu Fattentato dei “Lupi grigi” guidato dal Catli contro il presidente azero ritenuto non sufficientemente allineato con i desiderata di Ankara. C'è il perdurante sostegno al secessionismo nel Caucaso, che già Ankara aveva aiutato durante la guerra russo-cecena (1994-96); lo scopo e di rendere insicuro il Caucaso, se il petrolio prenderà la via della Russia, e di garantirne invece la tranquillità se l’oro nero dal Caucaso approderà in Turchia. E c'è il giro di vite impresso al passaggio delle navi petrolifere nel Bosforo, annunciato dal ministro Burhan Kara. Dal mar Nero infatti il petrolio del Caspio già arriva dal porto di Supsa, attraverso gli impianti esistenti, e deve attraversare il Bosforo per arrivare nel Mediterraneo; per questo il ministro turco minacciò anche di quintuplicare le tariffe di transito, se quella rotta fosse stata potenziata: «Vedranno – disse in una conferenza stampa – che cosa accadrà dei loro sogni di petrolio a buon mercato» («The Wall Street journal-Eu rope», 9 novembre 1999)]]]

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L'Unione Europea è ansiosa di avere sboc­chi multipli di esportazione per aver maggior sicurezza di ricevere i prodotti energetici, ma non è favorevole ai turchi come lo sono gli Stati Uniti. "Politicamente e strategicamente è molto meglio avere più di una rotta e non escludere la Russia" ha affermato il Commissario europeo per l’energia. Secondo gli europei e le stesse compagnie petrolifere – continua il quotidiano economi­co – la via russa del mar Nero consente di far proseguire agevol­mente il petrolio verso l’Occidente, con trasporti marittimi diretti in Romania e in Bulgaria, e la Bulgaria potrebbe ospitare un oleodotto diretto in Grecia, vanificando gli sforzi della Turchia per rendere il passaggio del Bosforo sempre più difficile e costoso. A queste argomentazioni se ne aggiunge un'altra: Ankara non ha certamente i mezzi per costruire dal nulla le strutture necessarie». Ecco, allora, il miracolo. Per indurre le più che riluttanti,compa­gnie petrolifere a collaborare alla costruzione dell'oleodotto del Kurdistan, con una mossa a sorpresa dagli Stati Uniti arriva il denaro necessario per i primi lavori di costruzione dell'oleodotto: un dono dell'Agenzia governativa per il commercio e lo sviluppo di 823.000 dollari, a cui si aggiungerà un prestito bancario di 827.000 dollari. I quotidiani riportano la notizia nello stesso giorno (il 22 ottobre 1998) in cui annunciano l’accordo con cui la Siria si impegna con la Turchia a chiudere ogni appoggio al PKK.

Ocalan alla fine del 1996 aveva dichiarato – nell'ambito della sua resistenza al regime – che avrebbe ostacolato il passaggio dell'oleodotto sul suolo del Kurdistan. Ma il punto non è certa­mente soltanto questo. La colossale operazione geostrategica, che umilia le aspirazioni politico-economiche dell'Europa occidentale e orientale, è un'altra tessera di un mosaico inquietante per le sue connotazioni antieuropee e antidemocratiche. L'appartenenza della Turchia alla NATO ormai egemonizzata dal Pentagono, la gigan­tesca militarizzazione del territorio del Kurdistan e l’occupazione permanente del nord Iraq, il continuo incremento e aggiornamen­to del potenziale bellico di Ankara, il GAP, l’accordo militare e di intelligence con Israele, la diga di Ilisu, altra arma puntata contro i paesi a valle del Tigri e dell'Eufrate, e infine l’oleodotto Baku-­Ceyhan disegnano un quadro in cui la Turchia è dominatrice per conto dell'alleato che ha sponsorizzato e pagato la sua potenza. Il ruolo della Turchia, gendarme affacciato sul petrolio del Golfo, portaerei dei bombardamenti sull'Iraq, piattaforma militare di Israele alle frontiere con la Siria e con Iran, avamposto della potenza americana sulle regioni che si estendono dal Caspio ai confini della Cina, non puo lasciare spazio alle ragioni dei diritti e della pace. La resistenza kurda, che lo strapotere degli arma­menti e dell'intelligence dei tre partner non è riuscito ad annien­tare, disturba non poco la marcia trionfale di quella che alcuni giornali americani chiamano la "alleanza fantasma" tra Stati Uniti, Turchia, Israele.

Si assiste così a uno spettacolo ignobile: l’unica superpotenza del mondo scende direttamente in campo contro un popolo op­presso che lotta per la propria esistenza. I "fantomatici alleati" ritengono, evidentemente, di poter finalmente spezzare l'irriduci­bile resistenza kurda decapitandola, con l’eliminazione del suo presidente.

Il sequestro di Ocalan, un atto di pirateria internazionale, sarà 1'epilogo di una caccia all'uomo accuratamente programmata. Le sue fasi: la convocazione a Washington dei due leader kurdo­iracheni, la concreta minaccia di guerra contro la Siria,

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la pressione a tutto campo su ogni governo a cui Ocalan possa rivolgersi per chiedere asilo, il monitoraggio costante di ogni movimento del leader kurdo. Vengono curati perfino i particolari: il finanziamento di una televisione satellitare in kurdo creata allo scopo di "informare" dei danni che ai kurdi stessi hanno arrecato Ocalan e il PKK.

 

Il PKK e l'Europa: la grande illusione

 

La prima puntata dell'operazione anti-PKK si svolge sul finire dell'estate del 1998. l13 settembre sono convocati a Washington dal segretario di stato Madeleine Albright i leader dei due più importanti partiti del Kurdistan meridionale, Barzani e Talabani. Il primo è da tempo collaborazionista; ha fatto crollare il governo autonomista di Arbil chiamando in proprio aiuto le forze irachene e si e affiancato ad Ankara nel controllare la frontiera e parte della regione kurdo-irachena contro il PKK. Il secondo, che nel 1997 ha affrontato le forze turche e di Barzani in un fronte kurdo che comprendeva il PKK, aveva tentato più volte di formare, con il PKK, il Partito democratico kurdo-iraniano e altre formazioni minori, anche kurdo-siriane, un Congresso nazionale, per costituire una leadership atta a rappresentare unitariamente il Kurdistan nelle sedi internazionali. Ma ogni volta le speranze di unità dei kurdi erano state vanificate dai diktat dell'alleanza turco-america­na. La storia si ripete. Albright impone un forzato accordo tra Barzani e Talabani, promette il mantenimento dell'autonomia nel Kurdistan meridionale e l’elargizione di fondi per gli aiuti umani­tari ed esige l’impegno unitario delle due organizzazioni per impedire al PKK l’uso di basi militari e lo sconfinamento nel loro territorio. Nessun problema per Barzani già fruttuosamente im­piegato dalla Turchia contro la guerriglia del PKK; quanto a Talabani, non è possibile sottrarsi al ricatto, almeno ufficialmente: la guerra del Golfo ha ridotto il Kurdistan iracheno a un'isola tagliata fuori dal mondo, sottoposta a doppio embargo, dell'ONU sull'Iraq e di Baghdad contro i kurdi, aggredita dalla Turchia, irraggiungibile dai convogli umanitari.

Eliminato – così almeno si crede – il possibile sostegno del PUK, occorre far cessare l’appoggio della Siria, che ospita a Damasco Ocalan e i suoi collaboratori, premessa indispensabile per impadronirsi del leader del PKK. Non basta più l’arma del­l'arsura – in quel periodo, la Siria è messa a dura prova da una terribile siccità e dalla diga Ataturk l’acqua arriva in quantità insufficienti. Ci penseranno le forze armate. «La Turchia sta concentrando migliaia di soldati al confine con la Siria in quello che appare come un "duro avvertimento" dopo che sembrano falliti gli sforzi diplomatici per convincere Damasco a por fine al suo appoggio ai ribelli kurdi del PKK – informa un comunicato ANSA del primo ottobre 1998 – [...] Secondo gli osservatori, l'escalation con la Siria fa seguito all'accordo di Washington fra i leader kurdi per tenere fuori il PKK dall'Iraq settentrionale, lasciando Damasco ultimo grande santuario dei ribelli kurdi di Turchia».

Damasco non consegna il leader kurdo alla Turchia. Ocalan lascia il paese il 9 ottobre e la Siria, dopo tre settimane d'assedio e quaranta ore di negoziati deve siglare un accordo in cui si impegna a porre fine a ogni sostegno al PKK. Iniziano così le peregrinazioni del leader kurdo, che avrebbe diritto all'asilo e che si vede respinto anche da quei governi i cui parlamentari si erano solennemente impegnati a favore della sua causa. Dopo il seque­stro di Ocalan, «The New York Times» (20 febbraio 1999) in un servizio dal titolo “Gli Stati Uniti hanno aiutato la Turchia a trovare e a catturare il ribelle kurdo” racconta il ruolo di protagonista del governo americano nel sequestro di Ocalan. Gli americani stessi, dando prova di squisita sensibilità nei confronti di un popolo privato di ogni diritto che vede in Ocalan una speranza di riscatto e di pace, avevano chiamato "Safari" l’imponente operazione, destinata a finire in Kenya. L'autorevole quotidiano, citando fonti

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dell'amministrazione statunitense e rivelazioni del «Los Angeles Times», giornale vicino alla CIA, riassume l'imponente sforzo dell'esecutivo democratico: «Le pressioni della diplomazia ameri­cana spalleggiata dal lavoro di intelligence hanno costretto mr. Ocalan a lasciare la sua sede sicura in Siria, hanno persuaso una nazione dopo I'altra a rifiutargli l'asilo, lo hanno spinto in una ricerca sempre più disperata di un rifugio... Da ottobre in poi, quando mr. Ocalan cercò rifugio in Russia, e poi attraverso l'Eu­ropa e infine in Africa, i diplomatici e gli agenti americani si impegnarono nel tagliargli tutte le vie di fuga, secondo quanto dichiarano qui i funzionari dell'amministrazione», continua il «New York Times». E quando in ottobre la Turchia minacciò di invadere la Siria per ottenere 1'espulsione di Ocalan, «Gli Stati Uniti formularono in privato (alla Siria) e in parallelo, la medesi­ma richiesta». Sempre secondo le autorevoli fonti del quotidiano, la partenza di Ocalan da Damasco il 9 ottobre, con destinazione Mosca, era stata comunicata dal Mossad.

A partire da Damasco, dunque, ogni governo si inchina al volere di Washington. Il Parlamento russo aveva votato a grande maggioranza in favore dell'asilo politico a Ocalan ma il primo ministro Primakov rifiuta l’asilo e tronca l'ospitalità, al leader kurdo che da Damasco era sbarcato a Mosca. Il PKK decide di sperimentare l'Europa dei diritti umani e democratici.

Da tempo la dirigenza del PKK aveva maturato la decisione di portare la causa kurda alla ribalta dell'Europa per ottenere una più significativa collaborazione al fine di avviare con la Turchia negoziati di pace e anche i sostenitori europei ritenevano che la presenza di Ocalan in un paese dell'Europa unita sarebbe stata utile a questo scopo. Da anni, gruppi di parlamentari di vari paesi europei avevano iniziato più o meno riservati pellegrinaggi in Siria, per incontrarsi con il presidente del PKK, ed era stata messa a punto una graduale strategia che, attraverso una serie prelimina­re di iniziative (conferenze di pace, tregue unilaterali, risoluzioni europee e nazionali, assemblee del Parlamento in esilio nelle sedi istituzionali di alcuni paesi – L'Aja, Copenaghen, Vienna, Atene, Mosca, Roma ... ) si sperava potesse indurre Ankara ad affrontare 1a questione kurda in una prospettiva di pace e democrazia. Una decisione che sembrava matura fin dal 1994, quando nel corso di una grande conferenza internazionale a Bruxelles, era emerso 1'appoggio dei parlamentari di diversi paesi europei e di autorità religiose per avviare trattative di pace. L'Europa democratica diventava il nuovo scenario di una lotta da condurre con gli strumenti della politica, e la presenza di Ocalan assumeva anche il significato di una garanzia della volontà di pace. In questa prospettiva, dall'estate del 1998 si erano susseguite le visite a Ocalan di parlamentari di alcuni paesi europei, tra i quali l'Italia.

Dopo la risoluzione del 10 dicembre 1997, adottata all'unani­mità dalla Commissione esteri del Parlamento, che impegnava il governo a riconoscere i diritti del popolo kurdo, compreso quello all'indipendenza, il Senato italiano accoglieva una seduta del “Parlamento kurdo in esilio” e numerosi parlamentari redigevano insieme ai kurdi una Carta d'intenti che tra l’altro stabiliva di portare la questione kurda all'attenzione dell'ONU e dell'OSCE. C'erano dunque le premesse per un concreto interessamento italiano all'avvio di un dialogo internazionale sulla questione kur­da, fondato sulla preventiva rinuncia del PKK alla lotta armata, già messa in opera da Ocalan con la tregua unilaterale del 30 agosto di quell'anno. Per questo il 12 novembre 1998 Ocalan atterra a Roma. Arriva da Mosca, con un volo Areoflot, è accom­pagnato dal parlamentare italiano Ramon Mantovani. Il compor­tamento del governo è corretto. Richiamandosi alle leggi italiane e internazionali, il primo ministro D'Alema rifiuta di estradare Ocalan in Turchia, dove vige la pena di morte; il governo sostiene l’ondata di protesta turca che si sfoga con plateali manifestazioni di piazza e con il boicottaggio di prodotti italiani, compresi quelli fabbricati in Turchia. L'importanza di Ocalan per milioni di kurdi in Medio Oriente e nel mondo risulta con evidenza dalle pacifiche manifestazioni che accompagnano la sua presenza a Roma.

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Decine di migliaia di kurdi arrivano da ogni parte del mondo per sostenere la richiesta di asilo politico di Apo, alcuni – donne e uomini – si danno fuoco per mostrare la loro protesta (nei con­fronti di Mosca, per il rifiuto di accogliere il leader) o la dimen­sione di una speranza che arriva all'estremo sacrificio. La comunità kurda in Italia, presieduta dal medico kurdo-iracheno David Issamden e composta in maggioranza da kurdi provenienti dal­l’Iraq e dall'Iran, si schiera compatta a favore di Ocalan; i leader degli altri partiti di tutto il Kurdistan (escluso il PDK-Iraq) man­dano messaggi in cui chiedono l’asilo politico per 11 presidente del PKK. Grandi manifestazioni kurde avvengono contemporanea­mente in tutto il mondo, dall'Australia all'Iran, da Israele all'Iraq, dalla Germania al Libano, dagli Stati Uniti alla Siria. Ocalan in quanto presidente del PKK non è il leader di tutti i kurdi, ma tutti i kurdi, indipendentemente dalla loro origine e dalle convinzioni politiche riconoscono in lui il simbolo della loro speranza di pace e giustizia. A Roma, piazza Celimontana diventa "piazza Kurdi­stan": qualcuno appone perfino l’apposita targa. Il governo italia­no cerca immediatamente un'intesa con i partner dell'Unione Europea. Nessuno di essi è disponibile a cogliere l’occasione per l’avvio della tante volte auspicata soluzione politica della questio­ne kurda. La pur potente Germania rinuncia perfino a chiedere l’estradizione di Ocalan (imputato da un suo giudice per l’arruo­lamento nel PKK di minori di cittadinanza tedesca), per non assumersi alcuna responsabilità. Inutilmente il leader kurdo riba­disce la propria intenzione di sottoporsi sia alla giustizia tedesca, sia al giudizio di un tribunale internazionale, nonché la concreta volontà di pace del PKK e del popolo kurdo. L'ingerenza ameri­cana si fa sentire; e si avverte perfino nel linguaggio del premier D'Alema, che all'inizio definisce Ocalan «il leader kurdo», poi passa a un «il signor Ocalan» e infine approda a «il terrorista Ocalan». Qualche retroscena della partenza di Ocalan da Roma è rivelato nel citato servizio del «New York Times»: «Abbiamo passato un mucchio di tempo a lavorare con Italia, Germania e

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Turchia per trovare un modo creativo di consegnarlo alla giustizia – ha detto (riferendosi al leader kurdo) il senior administration officer», scrive il quotidiano, citando l’anonimo «funzionario go­vernativo di grado elevato» che ha accettato di fornire queste rivelazioni. Dal canto suo, il «Los Angeles Times» aveva precisato, per bocca di un altro responsabile americano: «Ogni volta che abbiamo saputo dov'era (Ocalan) o dove pensava di rifugiarsi, siamo intervenuti per impedire che gli fosse concesso l’asilo o un diritto di passaggio».

Il sequestro del leader kurdo è stato «un affare nel cuore del triangolo Ankara-Washington-Gerusalemme», come titolava «Le Monde» il 18 febbraio; nel testo, «Le Monde» ricorda: «Il Dipartimento di stato americano, molto coinvolto, aveva reiterato, il 3 febbraio, un appello "destinato ai paesi che potenzialmente po­trebbero ospitare il capo kurdo" invitandoli ad "aiutare la Turchia nei suoi sforzi per tradurre in giudizio Ocalan". Nel pieno della crisi diplomatica tra Roma e Ankara, dopo il rifiuto italiano di estradare il capo del PKK, la diplomazia americana aveva svolto d ruolo di mediatrice». In un altro articolo nella stessa data, «Le Monde» più dettagliatamente riferisce: «Il 20 dicembre [1998] a Roma si attivano negoziati sotto l’egida americana. I turchi com­prendono che l’Italia non può accettare un'estradizione pura e semplice verso Ankara» e propongono l'Albania. Ocalan rifiuta, perché «Ankara ha eccellenti rapporti con Tirana. Gli italiani allora propongono Tripoli. Senza successo. Il Dipartimento di stato americano fa sapere che l’invio del capo terrorista in Libia costituirà un casus belli diplomatico». E’ evidente la volontà di costringere Ocalan a recarsi in un paese dove il suo sequestro sarebbe stato sicuro. Al termine della vicenda, lo stesso presidente del Kenya Daniel Arap Moi (al potere da 21 anni) dichiarava di essere stato partecipe dell'operazione, mentre il presidente Bill Clinton e il premier Benjamin Netanyahu,si congratulano pubbli­camente per la vittoria della Turchia.

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L'intervento americano impedisce il pur doveroso riconoscimento dell'asilo politico al perseguitato Ocalan e pone fine al­l’ospitalita italiana. Il paese europeo in cui e più radicato il soste­gno al PKK è la Grecia. Ocalan lascia trasparire, in un'intervista al quotidiano greco «Elefterotipia» rilasciata pochi giorni prima di lasciare Roma, di non essersi rivolto ad Atene per non innescare bellicose ritorsioni da parte di Ankara, sempre sul piede di guerra con la Grecia: «Simitis [il premier greco] riconosce il PKK come movimento di liberazione nazionale che lotta per la libertà del popolo kurdo, però sottolinea che la Grecia solidarizza soltanto a livello politico e diplomatico. Si intravede la preoccupazione di possibili ripercussioni negative che ritengo infondate [[[NOTA: La Turchia aveva infatti dichiarato che l’ospitalita greca a Ocalan sarebbe stata conside­rata un casus belli]]]. Se un giorno venissi in Grecia sarebbe evidente la futilita delle minacce turche». Il leader kurdo, vista la situazione, voleva dunque tentare la carta ellenica, non sperimentata prima a causa della tensione esistente tra i due paesi. Ocalan e la dirigenza del PKK evidente­mente non avevano considerato che dietro alla Turchia vi era un avversario ben più potente, in grado di condizionare le scelte di tutti i governi d'Europa e dell'Unione Europea. Ocalan si è fidato della unanime solidarietà popolare ellenica e del sostegno che la Grecia fin dal 1985, cioè dagli inizi della lotta armata del PKK, aveva fornito al movimento kurdo. «Il popolo ellenico – aveva aggiunto Ocalan nell'intervista a “Elefterotipia” – non dovrebbe essere ostacolato dall'assumere la giusta posizione politica nei confronti del PKK; questo e un suo diritto e forse un suo dovere». Nel caso Ocalan, risulta con chiarezza il limite delle democrazie occidentali. Il Parlamento greco, come quello russo, si era espresso a favore dell'asilo politico a Ocalan – provvedimento, d'altron­de, dovuto in base alle leggi internazionali. Se in Grecia si fosse indetto un referendum, il risultato avrebbe certamente conferma­to il sostegno al PKK. Ocalan, come può accadere a chi sogna la democrazia, non ne ha forse valutato la reale impotenza a fronte di pressioni internazionali; non ha tenuto conto del distacco che ormai spesso si verifica tra il governo da una parte e parlamento e cittadini dall'altra.

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Il 29 gennaio Ocalan, dopo diverse peregrinazioni, riesce a entrare in Grecia con un aereo privato dell'imprenditore Serlopu­los; è accolto dal vecchio amico Naxakis, un ammiraglio in pen­sione, e ospitato da un'esponente della resistenza antinazista, la scrittrice Damianakou. Informati della sua presenza, il ministro dcgli esteri e il capo dei Servizi segreti ellenici propongono a Ocalan il quasi immediato trasferimento all'ambasciata greca di Nairobi. Pare impossibile che il leader kurdo, il quale non si fidava dell'Albania, abbia acconsentito a recarsi nella capitale kenyota, notoriamente feudo della CIA. Fonti attendibili infatti riferiscono che la meta prospettata a Ocalan fosse invece il Sud­africa, il cui presidente Mandela ha più volte dato prova del proprio sostegno alla causa kurda.

Qualche giorno dopo l’arrivo di Ocalan a Nairobi – e cioè nella prima settimana di febbraio – l’etere si spalanca a una nuova emittente satellitare in lingua kurda, KTV (Kurdish Television). E’ finanziata da Washington, e gestita dal partito kurdo del collabo­razionista Barzani, dal cui territorio trasmette, ha lo scopo di diffondere tra i kurdi in tutto il mondo la propaganda anti-PKK. La trappola sta per scattare. Si teme la protesta kurda, e KTV vuole esserne un preventivo antidoto. Secondo il «New York Times» (20 febbraio 1999) il sequestro di Ocalan era stato meti­colosamente predisposto dai numerosi agenti dello spionaggio americano presenti a Nairobi. Dagli americani il governo turco era stato avvertito che tutto era pronto. Nella notte del 15 febbra­io, bastava mandare i berretti marroni di Ankara a prelevare la vittima, materialmente, e con facilità; del complotto, a cui avevano partecipato i servizi segreti del Kenya, faceva parte anche l’autista kenyota che doveva portare Ocalan all'aeroporto, con il pretesto di un volo verso l'Olanda, dove la sua richiesta di asilo sarebbe stata accolta. La vettura che trasporta, Ocalan insieme ad agenti

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kenyoti (i quali hanno impedito al leader kurdo di salire sull'au­tomobile in cui si trova l’ambasciatore greco) viene dirottata e si ferma davanti all'aereo turco; il sequestrato è consegnato ai nume­rosi agenti di Ankara, mascherati. In Turchia, Ocalan è chiuso nel carcere-fortezza sull'isolotto di Imrali, al largo di Istanbul. E il solo prigioniero, custodito da 400 agenti e assistito da tre medici; poiché dagli esami medici fatti all'ospedale militare del Celio, a Roma, le condizioni di salute di Ocalan risultavano eccellenti, si teme che i tre sanitari siano addetti – come e prassi in Turchia – a graduare la somministrazione di torture e droghe e a eventual­mente nasconderne le più vistose conseguenze.

Alla protesta kurda si unisce, ovunque nel mondo, l'indignazio­ne dei democratici dei diversi paesi. Perfino nelle Filippine, dove non si trova un solo kurdo, il presidente turco Demirel è accolto da consistenti dimostrazioni di ostilità per il caso Ocalan. In Italia si susseguono manifestazioni di protesta nella capitale, nelle gran­di città, nei piccoli centri. Nelle piazze e in decine di dibattiti, si chiede che al leader kurdo venga riconosciuto, anche se in ritardo, il diritto d'asilo. Il premier greco Simitis resta in sella sacrificando tre ministri del suo stesso partito e i vertici dei servizi segreti. La popolazione ellenica, che ha visto tradito il suo eroe, precipita in un abisso di disperazione. Le immagini del leader kurdo legato, imbavagliato, stordito, fotografato in mezzo alle bandiere turche sono tali da impressionare anche chi non nutre particolari simpa­tie per la causa kurda. «Se ragione c'è in chi l’ha arrestato – scrive la semiologa Giovanna Calvenzi («La Stampa», 19 febbraio 1999) – questa foto ha il potere di cancellarla e di consegnare alla storia un'immagine di barbarie senza tempo».

In Turchia esultano i politici, i media, la maggioranza dei cittadini. Il primo ministro Ecevit lascia intendere – orgoglioso – che l’operazione turca si è svolta con la collaborazione dei servizi americani. Si scatena una repressione gigantesca contro i kurdi. Dodicimila persone sono arrestate nella sola città di Diyarbakir, nella quale è vietato l’ingresso ai rappresentanti della stampa e ai difensori dei diritti umani, quattromila cinquecento membri del partito HADEP sono rinchiusi in cella, alcuni suoi esponenti vengono assassinati in diverse città, sono del tutto proibite le già travagliate manifestazioni a Galatasaray delle madri dei desapa­recidos, vengono chiusi i centri per le vittime della tortura e altre istituzioni umanitarie e culturali. Una forte offensiva militare si scatena nel Kurdistan, in Turchia e nord Iraq, nel tentativo di schiacciare i guerriglieri, ora guidati dal fratello di Ocalan, Osman e dal veterano Cemil Bayik. La guerriglia non si arrende, e minaccia di portare la guerra in tutta la Turchia. E’ crollata la speranza di pace e di giustizia per i kurdi e le minoranze del Kurdistan. Esplode la protesta dei kurdi nel mondo. Cemil Bayik, comandante delle operazioni militari del PKK nel nord dell'Iraq, il 17 febbraio in un'intervista telefonica alla MED TV ripresa dalle agenzie di stampa invita i kurdi in esilio «ad astenersi da ogni violenza e ad agire in una cornice democratica», e aggiunge: «Alcuni dei nostri si danno fuoco, questo non è certamente giusto. La dirigenza [del PKK] ha bandito questo genere di azioni, che devono essere evitate a tutti i costi». I kurdi sono le sole vittime della disperazione. Sono 65 i kurdi e le kurde che, come Jan Palak nel tramonto della Primavera di Praga e come i monaci del Viet Nam aggredito dagli americani, si sacrificano nel fuoco, in ogni angolo del pianeta, da Sidney alle carceri turche. Altri cadono vittime della violenza della repressione, in Iran e a Berlino, dove quattro giovani che manifestavano, come gli altri, disarmati, davanti all'ambasciata di Israele sono abbattuti a colpi d'arma da fuoco – due di essi sono colpiti alle spalle – dagli agenti israeliani. Con un atto contrario all'umanità e al diritto (il prin­cipio del ‘non refoulment’, per cui è vietato estradare uno straniero nel paese di provenienza in cui corre pericolo) il governo tedesco spedisce in Turchia otto kurdi fermati nel corso della manifesta­zione. Ankara fa scuola. L'Europa del diritto, che aveva dichiara­to di continuare a intrattenere rapporti con Ankara nella speran­za di una "contaminazione democratica", è a sua volta contaminata dalla brutalita del regime di cui comincia ad assumere qualche connotazione.

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L'Europa dei diritti e la chiusura di MED TV

 

Dopo il sequestro di Ocalan la guerra continua e non solo sulle montagne del Kurdistan. Il giorno di Nawroz 1999 è il pretesto per una nuova ondata di repressione che coinvolge tutta la Tur­cbia con cariche sanguinose, linciaggi e migliaia di arresti di manifestanti e di membri dei partiti democratici; le delegazioni arrivate dall'estero a stento riescono a uscire dai loro alberghi di Istanbul e i loro colloqui con gli attivisti dei diritti umani vengono severamente controllati e di fatto resi impossibili da stuoli di agenti di sicurezza. La guerra contro i kurdi continua anche in Europa. Il 22 marzo MED TV, che per prima, nella notte del 15 febbraio, aveva dato la notizia del sequestro, di Ocalan, e condan­nata a sospendere le trasmissioni per tre settimane. Fondata a Londra nel 1994 da Hikmet Tabak, rimasto il suo direttore, la MED TV produce programmi realizzati nelle due principali va­rianti della lingua kurda e in aramaico, turco, arabo e inglese. Ha uffici a Regent Street, nel cuore di Londra e studi in Belgio. L'emittente ha un giro d'affari annuale di quasi 30 miliardi di lire ed e finanziata da organizzazioni europee, da alcuni investitori privati e tramite la pubblicita. Allo scadere dei 21 giorni di punizione, ITC (Independent Television Commission) l'organi­smo britannico di sorveglianza, revoca la licenza di MED TV. Invece di riprendere le trasmissioni, la voce dei kurdi rimane muta, imbavagliata come Apo Ocalan nell'immagine che ha scon­volto le coscienze del mondo democratico. MED TV avrebbe "incitato alla violenza" con il comunicato del PKK trasmesso a Nawroz, peraltro ripreso da molte altre televisioni. Ankara, che in passato aveva commesso veri e propri reati di pirateria aerea per oscurare MED TV, che più volte ne aveva ottenuto la chiusura e1'allontanamento dai paesi ospitanti e che ha esercitato forti pres­sioni su ITC per far chiudere 1'emittente kurda, esulta nuovamen­te. «Ci auguriamo che MED TV sia chiusa non per 21 giorni ma per sempre» auspica un portavoce governativo. Hikmet Tabak dichiara: «Rifiutiamo categoricamente l’accusa di aver incitato alla violenza. Come tutte le emittenti televisive, compresa la BBC, la Reuters e le televisioni tedesche, abbiamo mandato in onda il coinunicato di Osman Ocalan, il fratello del leader kurdo imprigionato, Abdullah Ocalan, che – cito alla lettera – invitava a una totale mobilitazione a fianco dei kurdi. Né noi né le emittenti europee abbiamo censurato la sua dichiarazione. Troviamo strano essere puniti per qualcosa che gli europei danno per scontato sia invece loro garantito». In una nota diffusa su Internet da AKIN (American Kurdish Information Network), si osserva che MED TV è l’unica emittente televisiva in lingua kurda per i 15-20 milioni di kurdi in Turchia e che le televisioni turche da anni e anni descrivono la guerra contro i kurdi come un dovere patriot­tico. In campagne mediatiche della televisione nazionale, intitola­te "Con i soldati, mano nella mano», osserva Akin, «Ankara esalta la violenza, coltiva l'odio e raccoglie denaro per sostenere lo sforzo bellico. Con il sistema satellitare, questi programmi turchi si possono oggi vedere anche a Parigi, Londra, New York ... ».

Nel 1996, in occasione di uno dei precedenti oscuramenti della televisione kurda, il politologo turco Haluk Gerger rilasciò la seguente dichiarazione: «MED TV è stata per milioni [di turchi] una scuola di comprensione e di rispetto per differenti culture, valori e visuali. Lavorando per essa, guardandola, partecipando ai suoi programmi, siamo stati infettati dalla malattia della libertà, come direbbero i nemici di MED TV».

Per un'altra curiosa coincidenza, il presidente della ITC sir Robin Biggam, è uno dei dirigenti della British Aerospace, un'azien­da che vende sistemi d'arma alla Turchia. Il primo ministro turco Bulent Ecevit, esultando, attribuisce la decisione di ITC a una possente campagna governativa: «Questo dimostra – dichiarava alla stampa – che la Repubblica Turca può raggiungere tutte le sue mete quando agisce con determinazione per una giusta causa» [[[NOTA: “Reuters”, 23 e 24 aprile 1999; “TDN”, 24 aprile 1999]]]

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Subito dopo la chiusura di MED TV, il 26 aprile (ancora una coincidenza?) il ministro degli interni turco, probabilmente nel tentativo di ristabilire le condizioni antecedenti il 1991, anno in cui il presidente della Turchia aveva dovuto riconoscere, dopo la guerra del Golfo, l’esistenza di una "realtà kurda", indirizza alle istituzioni nazionali quali TRT (il Consiglio per la radio e televi­sione) e le università nonché, capillarmente, a ogni ufficio pubbli­co, una circolare contenente 37 termini da evitare e da sostituire come prescritto. Per esempio, invece di «persona di origine kur­da» occorre dire «i nostri cittadini che sono chiamati kurdi negli ambienti separatisti». L'espressione più sorprendente e quella che si dovrà usare in alternativa alla parola «pace»: «interruzione delle attività terroristiche». La circolare specifica che gli appelli per la pace, lanciati dai democratici turchi, kurdi e del mondo devono essere d'ora in poi tradotti con «appelli per l'interruzione delle attività terroristiche».

 

La circolare ministeriale del 26 aprile 1999
sulla terminologia relativa alla questione kurda

La terminologia bandita e quella da usare in sostituzione (sono tenuti a farlo le università, i media e gli uffici pubblici) secondo la circolare ministeriale del 26 aprile 1999, pubblicata dal quotidiano turco «Milliyet» il 20 maggio, comprende i seguenti termini:

 

guerrigliero, insorto

terrorista, ribelle,ladro

pesh merga

nord iracheno

rifugiato

emigrante

Apo, Ocalan

Ocalan il terrorista

organizzazione separatista o autonomista

organizzazione terrorista

campo o base della guerriglia, dei separatisti

nascondiglio di terroristi

villaggi evacuati

villaggi abbandonati

stato kurdo [la Regione autonoma kurda in Iraq]

coalizione del nord Iraq

leader kurdi

capi tribali del nord Iraq

pace

interruzione delle attività terroristiche

 

 

Secondo queste disposizioni, perfino i kur­di in Iraq cesserebbero d'essere tali – la Costituzione di Baghdad riconosce che l’Iraq è composto dai due popoli, arabo e kurdo – diventando "nord-iracheni". Si tratta di un preludio alla turchiz­zazione del Kurdistan meridionale (nord-iracheno)? Non è da escludere che Ankara, dall'alleato americano, si attenda una "so­luzione della questione kurda" consistente nell'attribuire alla Turchia l'ambìto controllo di quella regione.

Con la chiusura di MED TV nell'Europa della libera informa­zione, è stata soffocata l'unica voce che sosteneva l’identità kurda e consentiva al mondo di conoscerne non soltanto le istanze politiche ma anche la ricchissima, affascinante cultura. La prete­stualità della chiusura è dimostrata anche dal fatto che un mese prima della trasmissione "incriminata" si sapeva che la televisione kurda stava per essere cancellata dall'etere: «Vogliono chiudere

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MED TV – aveva denunciato, con rabbia e tristezza "Arjin", una giovane donna militante del PKK, già un mese prima – vogliono chiuderla dopo i servizi sulle manifestazioni per Ocalan nel mon­do, le stesse che avevano trasmesso tutte le altre televisioni, in ogni paese» [[[NOTA: Le dichiarazioni di "Arjin" (il suo nome di battaglia significa "Fuoco della vita") sono state rese all'autrice in un'intervista il 23 febbraio 1999]]].

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Nello stesso periodo in cui veniva annunciata la chiusura definitiva di MED TV, la rivista «Limes» rivelava, citando le parole di James Harf, direttore della compagnia “Rudder & Finn Global Public Affairs”, che l'immagine della "questione del Koso­vo" era stata curata da questa potente agenzia di pubbliche rela­zioni per la somma di 17 milioni di dollari all'anno, pagati da kosovari, croati e bosniaci. Arjin, della sua infanzia in un villaggio vicino a Diyarbakir, conserva un'immagine di uomini in nere divise e maschere nere, che impugnano grandi armi nere e di una selva di carri armati. Quanti di noi hanno mai visto, senza andare sul posto, le città kurde assediate da centinaia di carri e sorvolate dai neri elicotteri da guerra? Soltanto MED TV portava queste immagini sugli schermi del mondo. I kurdi non dispongono della Rudder & Finn né della CNN. Forse, sono destinati a morire come gli alberi delle loro foreste millenarie, come le messi dei loro campi bruciati dal napalm: un popolo vittima delle ricchezze del giardino di Eden e della propria ostinata differenza culturale. Oppure la loro determinazione a esistere sarà più forte del delirio di morte espresso nelle parole della signora della guerra Made­leine Albright che nei primi mesi del 1999 chiedeva la testa di Ocalan – insieme alla distruzione della Jugoslavia e alla perpetua­zione dei bombardamenti sull'Iraq?

 

Il governo dei “Lupi grigi” e la catastrofe del terremoto

 

Dopo la guerra per il Kuwait, i vertici dello stato e dell'esercito turco, più o meno ufficialmente, avevano espresso mire pantura­niche o di revival imperiale. «C'è un mondo turco che va dal­l'Adriatico alla Grande muraglia cinese» aveva detto nel 1993 il presidente Demirel. «I Balcani ci interessano perché gli ottomani vi hanno regnato per secoli» aveva dichiarato il presidente Ozal. Mire che possono sperare in un appagamento, poiché la Turchia gode di totale impunita, anzi viene premiata e incoraggiata nella sua politica antidemocratica dall'unica potenza mondiale, perché le sue mire coincidono con quelle dello sponsor americano.

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Così, permane dal 1974 l'occupazione di Cipro, continua dal 1991 l'invasione militare del Kurdistan iracheno (le autorità turche hanno più volte ribadito le loro ambizioni su quello che nel­l'Impero ottomano era il vilayet di Mossul, l'area petrolifera kurdo-irachena), mentre partono dalla base turca di Incirlik gli aerei angloamericani che continuano a bombardare l’Iraq. Prose­guono le trame per il dominio dell'Azerbaigian [[[NOTA: Si fa strada negli Stati Uniti l’idea di inserire anche l’Azerbaijan nell'alleanza tra Stati Uniti, Turchia e Israele, con il consenso di Ankara (IHT, 19 febbraio 1999)]]] e gli intrighi nel Caucaso contro la Russia, e si cerca di rendere più stretti – e egemonici – gli accordi politico-commerciali con le repubbliche turcofone, un tempo sovietiche, che si estendono verso la Cina. Sullo scacchiere delle ambizioni imperiali, una mossa appetita è la destabilizzazione dei Balcani. L'intervento americano in Bosnia suscita in Ankara nuove speranze. Ai bosniaci Ankara offre armi, finanziamenti, miliziani, diplomazia: la nascita di uno stato musul­mano sul suolo che fu già della Sublime Porta apre anche la via dell'espansione verso l'Adriatico. A prezzo di terribili sofferenze per le popolazioni e grazie all'iniziale errore degli stati europei, Germania in testa, che si erano affrettati a riconoscere il distacco dalla Federazione Jugoslava di Croazia e Slovenia, gli Stati Uniti avevano affossato i successivi più ragionevoli progetti allestiti dall'Europa per far fronte alla situazione (tra essi, una conferenza tra tutte le parti interessate) e con gli accordi di Dayton, la farsa di Rambouillet e l'aggressione alla Jugoslavia hanno perseguito la politica di creare piccoli stati etnico-religiosi sulla base del nefasto principio del “blut und boden” (sangue e terra) [[[NOTA: Il Congresso degli Stati Uniti nel novembre 1990 aveva approvato la legge 101/513 che autorizzava il governo a promuovere la dissoluzione della Jugoslavia attraverso il finanziamento delle nuove formazioni nazionaliste]]]. In questo conte­sto, Ankara può sperare di arrivare a estendere la propria egemo­nia sui Balcani, dove e presente con truppe e consiglieri militari a sostegno delle comunità musulmane di Bosnia e Kosovo e in Albania.

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La Turchia, che pratica massacri e deportazioni dei popoli diversi fin dal primo giorno della sua esistenza, aveva chiesto a gran voce l’intervento della NATO a favore della popo­lazione musulmana del Kosovo, mettendo a disposizione truppe, aerei e basi aeronautiche e dando la propria disponibilità all'acco­glienza dei profughi. Si chiude così il ciclo aperto nel lontano 1982, quando, mentre ll pugno di ferro dei militari golpisti colpiva i democratici – "rossi e separatisti" – poteva svolgersi a Izmir il congresso di fondazione di una formazione sedicente "marxista­leninista", il “Movimento popolare del Kosovo” (LPK) nucleo del­l’indipendentismo kosovaro, a cui si ricollegheranno le bande dell'UCK. Insieme agli Stati Uniti, sembra essere la Turchia la principale beneficiaria della criminale devastazione della Jugosla­via [[[NOTA: Alla fine dell'aprile 1999, un'indagine sui valori della borsa nei paesi coinvolti nella guerra della NATO indicava un aumento medio dell'8%; in particolare per gli USA l’incremento era del 7-8% con valori in grande crescita (poco dopo Wall Street aveva stabilito un nuovo record), per l'Italia si trattava di un irrilevante 1 % circa, mentre per la Borsa turca il profitto bellico assurgeva a un fantastico incremento del 22%.]]]. Il Kosovo andrebbe ad aggiungersi agli altri staterelli balca­nici a maggioranza musulmana egemonizzati da Ankara, la Bosnia e l'Albania, un vero e proprio feudo militare turco. Intorno alla Grecia, che non ha partecipato alla guerra "umanitaria" della NATO, si stringe la morsa turco-americana che tende a monopo­lizzare grazie allo snodo fondamentale dell'Azerbagian, la "via della seta del XXI secolo", diventata via degli oleodotti, dei commerci e del narcotraffico; tanto che Grecia e Armenia, già legate tra loro da accordi anche militari, stanno consolidando i loro rapporti con Hran che, come la Russia, Washington vuole escludere da ogni interesse nell'area, attraverso il potenziamento di una «nebulosa di stati para-fascisti, mafie etniche e narcotraf­ficanti» [[[NOTA: La citazione e tratta da un intervento di Fabrizio Vielmini, esperto di Asia centrale dell' “Observatoire géopolitique des drogues” di Parigi, pubblicato su «il manifesto» 1'11 luglio 1999 (titolo: “L'Iran rompe l’isolamento” ... ). Un articolo da leggere e meditare]]].

All'oltranzismo turco, forte dell'appoggio dell'onnipotente al­leato, non resta che mietere quanto è stato seminato. Le elezioni politiche del 18 aprile 1999 decretano il trionfo del MHP, il “Partito d'azione nazionale” di destra estrema, che annovera tra i suoi militanti, i “Lupi grigi”, criminali comuni, mafiosi di spicco e agenti del terrore di stato. E la prima volta che MHP arriva ad avere seggi in Parlamento: nelle precedenti elezioni aveva ottenu­to un buon risultato (8%) ma non sufficiente a superare l’alto sbarramento elettorale del 10% vigente in Turchia. MHP ottiene il 18,2% dei suffragi e da zero passa a 129 seggi in Parlamento; e secondo al DSP, Partito della sinistra democratica, ultranaziona­lista, di Bulent Ecevit, il primo ministro uscente, premiato per il successo del sequestro di Ocalan, e riconfermato alla guida del governo. L'anziano Ecevit, già premier all'epoca dell'invasione turca di Cipro, studioso di letteratura e poeta, è ritenuto un politico onesto, un'eccezione rispetto agli esponenti dei partiti di centro-destra protagonisti della corruzione dilagante; sulla que­stione kurda è sempre stato un falco. In Kurdistan invece vince la democrazia.

Il partito democratico pacifista HADEP, per quanto fortemen­te penalizzato, come già furono i suoi predecessori HEP e DEP, da arresti di massa (il presidente Murat Bozlak e 700 dirigenti erano stati incarcerati durante la permanenza di Ocalan a Roma) e assassini di dirigenti e attivisti, da devastazioni e chiusura di 540 sedi, da feroci intimidazioni dell'elettorato da parte delle forze turche, ottiene il 4% su base nazionale ma nelle contemporanee elezioni amministrative conquista le principali municipalità del Kurdistan. Ma a distanza di un mese HADEP viene trascinato in giudizio con le consuete accuse di separatismo, che per altri partiti democratici e pacifisti furono preludio allo scioglimento. I sindaci di HADEP eletti nel Kurdistan vivono nel rischio continuo di essere destituiti, arrestati, assassinati.

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Dall'Unione Europea e da alcuni politici e segretari di partito dei paesi che ne fanno parte, dopo il sequestro di Ocalan giungono ad Ankara scontate raccomandazioni perché Ocalan abbia "un processo giusto"; giunge anche la minaccia di non consentire alla Turchia l’ingresso nell'Unione Europea se 11 leader kurdo verra condannato a morte. Alle richieste di permettere a delegazioni europee di far visita a Ocalan in carcere e di assistere al processo, Ankara ripetutamente risponde di no con arroganza. Una delle risoluzioni del Parlamento europeo, del 6 maggio 1999, specifica­tamente chiede al governo turco di garantire la sicurezza degli avvocati di Ocalan, sottoposti a insulti, intimidazioni, minacce estese ai familiari, aggrediti e selvaggiamente picchiati nell'aula del tribunale, perseguitati con l’apertura di procedimenti giudi­ziari; una loro segretaria finisce in carcere. La risposta alla doman­da di democrazia e di rispetto dei diritti umani reiterata dall'Eu­ropa è arrivata con l’esito delle elezioni dell'aprile 1999 ed è confermata con la formazione del governo. L'esecutivo è affidato ad esponenti del DSP, di MHP e di ANAP. MHP aveva posto come condizione per far parte del governo la condanna a morte di Ocalan. Con una delle coincidenze che costellano la lunga storia della repressione in Turchia, la formazione del nuovo gover­no con la partecipazione di MHP avviene nello stesso giorno, il 31 maggio, in cui si apre il processo a Ocalan. Il successo in pieno sole della destra estrema, per decenni confinata in una zona d'ombra più criminale che politica, è stato commentato come una reazione all'atteggiamento europeo nei confronti della Turchia, esclusa dalla lista dei candidati all'ingresso nella UE [[[NOTA: Nel summit in Lussemburgo (1997) venne ribadito che l’ingresso della Turchia nella UE è subordinato al rispetto dei diritti umani e alla soluzione politica delle questioni cipriota e kurda; mentre per alcuni paesi dell'Europa dell'est era stata fissata una data di ingresso, l’adesione della Turchia è stata rimandata a tempo indeterminato]]] e alla posi­zione "filokurda" dell'Europa nel "caso Ocalan". Se si pensa che l’attegglamento dell'Europa sulla questione kurda e stato sempre e soltanto quello di richiamare Ankara al rispetto dei diritti uma­ni, sanciti nei trattati e convenzioni sottoscritti dalla stessa Turchia, e di invitarla a fermare la guerra a oltranza, il risultato elettorale diventa la risposta surreale in un dialogo tra sordi.

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In Turchia, neppure la “élite filo-europea” si rende conto che la soluzione della questione kurda è il fulcro per la democratizzazio­ne di un paese tragicamente immerso nella violenza razzista.

«La persistenza tenace del regime nella violenza e nella guerra, le politiche scioviniste, le manipolazioni dei mass media nel ten­tativo di seminare dissidi sociali e inimicizie etniche ha condotto le masse turche verso un nazionalismo rinnovato e frenetico” » [[[NOTA: * Gerger, La crisi in Turchia, cit.]]], scriveva il politologo turco Haluk Gerger prima del successo elettorale di MHP. Le sue previsioni si sono avverate, mentre gli amici della Turchia, ignorando i “Lupi grigi”, non cessano di agitare lo spettro dell'integralismo islamico – di cui temono l’avvento in assenza di un forte controllo del potere militare – e di inneggiare alla laicità della Turchia. Il successo del “Partito islamico del Benes­sere” (Refah) nelle elezioni del 1993 era dovuto alla miseria e all'assenza di qualunque iniziativa sociale da parte del governo per lenire le condizioni atroci dei turchi indigenti e dei kurdi profughi, i quali potevano ricevere qualche aiuto dalle confrater­nite religiose. Il governo a guida islamica non si è rivelato diverso dai precedenti per quanto riguarda le grandi questioni della pace, dei diritti umani e dei diritti sociali; e fu proprio questo governo a ratificare gli accordi con Israele. Il partito islamico – prima il Refah, sciolto dalla Corte costituzionale, e poi il suo epigono “Partito della virtù –  anch'esso ultranazionalista e in politica estera ha impostazione e progetti simili a quelli di MHP. MHP infatti esalta all'estremo l’ideologia della "turchità", entità supe­riore risultante dalla sintesi tra l’elemento etnico turco e l’elemen­to religioso, islamico sunnita. A sua volta, questa ideologia perva­de i vertici militari, che continuano a detenere il potere reale in Turchia; se in passato si erano avute, tra le forze armate, posizioni significative, per quanto di minoranza, a favore del dialogo nella

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questione kurda, presupposto per la democratizzazione del paese, un documento reso pubblico 1'11 maggio 1999 («Hurriyet», 12 marzo 1999) ribadisce le posizioni più oltranziste. Nel documen­to, intitolato “"Ultima situazione della lotta contro il terrore” lo stato maggiore dell'esercito turco dichiara: «La Repubblica Turca spez­zerà anche gli ambienti esteri che sostengono il terrore e annienterà totalmente l’organizzazione terrorista PKK». Lo stato mag­giore ribadisce che non esistono minoranze in Turchia al di fuori di quelle riconosciute in accordi internazionali (le ormai sparute minoranze religiose cristiane e ebraiche, di fatto ben poco rispet­tate). «Al di fuori di esse – precisa il solenne comunicato – nessuno dei nostri compatrioti costituisce una minoranza», e ripete: «La Repubblica Turca è un insieme indivisibile di stato e nazione [...] La natura del nostro stato unitario è una sola nazione, una sola patria, un solo stato, una sola lingua e una sola bandiera». L'annientamento della diversità culturale, un principio fascista totalmente contrario allo spirito dell'Europa, viene così riconfer­mato, senza alcuna considerazione per la domanda di riforme che arriva da ambienti turchi e con preoccupanti minacce agli am­bienti esteri che sostengono la causa "terroristica" del popolo kurdo.

Con il successo elettorale di MHP, si rafforza anche quella componente del potere militare turco che non è interessata a fare concessioni per entrare nel "club dei cristiani" (l'Unione Euro­pea) e che mira piuttosto all'egemonia su quello che il programma elettorale di MHP chiama "il mondo turco": un'ambiziosa defini­zione che include non soltanto le comunità di turchi all'estero, ma anche stati e comunità turcofone (turkic) mentre, con significativa differenza terminologica, le repubbliche dell'Asia centrale non sono più dette turkic ma "le repubbliche turche". Le repubbliche turche, Cipro, le comunità turche nei Balcani, i turkmani nel Medio Oriente (insignificante minoranza nel Kurdistan iracheno petrolifero, dopo la guerra ONU-Iraq numericamente potenziata con l’immissione di turchi, armata e finanziata dalla Turchia con il beneplacito anglo-americano per giustificare l’interesse di Ankara nell'area) sono definite da MHP «indispensabili per gli interessi nazionali della Turchia» [[[NOTA: Utku, La politica estera di MHP, «TDN», 21 aprile 1999]]].

Dal punto di vista della politica interna, uno dei primi provve­dimenti presi dal nuovo governo è stato il prolungare il condono per il riciclaggio di denaro sporco. Sollecitata,dall'OSCE, doveva entrare in vigore in Turchia entro il 1999 una riforma del sistema bancario che consentisse di arginare il plateale lavaggio dei capi­tali frutto di attività criminose operato dalle banche turche e turco-cipriote. In previsione di tale riforma, era stata concessa l’impunità a quanti dichiarassero al fisco i propri redditi sporchi entro i130 settembre del 1998. Il governo ha prorogato per ben tre anni questa impunità: una colossale operazione di riciclaggio alla luce del sole, se e vero che – come affermava, ad esempio, «Le Figaro» (13 novembre 1998) –, le risorse dell'economia criminale in Turchia superano i cento miliardi di dollari. Si tratta di risorse riciclate nella finanza, nella corruzione politica, nella guerra (ad esempio, con il mantenimento di armate personali dei boss, alla luce del sole) e nell'imprenditoria "allegra", senza preoccupazioni per le condizioni di vita dei poveri, degli emarginati, dei profughi interni; come ha rivelato tragicamente il terremoto dell'agosto 1999, che ha colpito la costa del mar di Marmara intorno a Izmit e ha raggiunto l’immensa e povera periferia di Istanbul, travolgen­do decine di migliaia di persone sotto i falansteri "di sabbia" o di "cartone": definizioni usate, per primi, dai media turchi.

Quel terremoto è stato – come i precedenti – lo specchio impietoso della realtà di un paese tanto generoso nel dotarsi di armamenti e di tecnologie militari quanto privo di attenzioni per la vita civile. Del potere militare (d'altronde incapace, nonostante la sproporzione di forze, di sconfiggere la rivoluzione kurda) ha messo in luce l’inefficienza, condannata dalla stampa turca e di tutto il mondo, e perfino l’immoralità: sono stati proprio i soccorritori

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di Israele, giunti per primi sul luogo del disastro, a informare con indignazione di aver ricevuto l’ordine – dagli ufficiali turchi – di porre in salvo i militari prima di dedicarsi alle donne e ai bambini. Soccorritori e giornalisti hanno denunciato inoltre – sempre in tema di immoralità – la palese intenzione delle autorità turche di non portare aiuto ai poveri quartieri abitati dai kurdi. A scavare, tra i turchi, sono stati per giorni soltanto i volontari, non attrezzati e non organizzati, non i militari. Nell'organizzare il soccorso, il governo è stato assente, poi indeciso, infine incapace. Ha perfino truccato i dati, fornendo ufficialmente il dato di 15.000 vittime, mentre secondo le organizzazioni non governative e l’ONU i morti sono stati oltre 45.000. «E hanno voluto lasciarli morire» e stato il commento unanime dei testimoni; infatti il premier Ecevit aveva troncato con troppa fretta le operazioni di soccorso, facendo intervenire le ruspe. La stampa turca si è unita al grido di "assassini" lanciato dalla prima pagina del quotidiano «Hurriyet» nei confronti degli imprenditori senza scrupoli e dei politici corrotti ai quali si deve un'attività edilizia criminosa, che ha trasformato una catastrofe della natura in una strage di massa: gli antichi monumenti e i grattacieli padronali hanno resistito alle scosse telluriche, mentre sono stati spazzati via interi quartieri di povera gente e i complessi alberghieri della speculazione turistica. Al governo da pochi mesi in carica non si può imputare la corru­zione del passato che ha consentito lo scempio edilizio; ma i ritardi e la disorganizzazione dei soccorsi e la carenza di senso di umanità spettano per intero all'esecutivo di Ecevit, così come i provvedimenti repressivi della stampa troppo critica, evidenziati dal pronto oscuramento di una rete televisiva nazionale.

Nello specchio accusatore del terremoto, si è riflesso il volto di un potere che, proteso fin dagli esordi della Repubblica alla repressione e alla guerra, non si e preoccupato – in un paese in cui la terra ha tremato sessanta volte in cento anni – di misure antisismiche né si e dotato di strutture di protezione civile ed è apparso di fatto indifferente di fronte a una tragedia di proporzioni immense. E” stato chiaro che la granitica forza dello stato onnipotente può e vuole agire soltanto contro i cittadini, e non sa o non vuole intervenire in loro favore. Lo specchio della verità del terremoto ha sgretolato infine, agli occhi della popolazione turca, il mito del tanto decantato esercito, sepolto dalla propria inefficienza e viltà, accusato dai media di "diserzione". Nei giorni del terremoto la stampa israeliana dava spazio ai forti timori di alcuni politici i quali paventavano, come conseguenza del sisma, lade­sione a un islamismo radicale di una parte consistente di quei cittadini turchi che dalla modernità militarizzata voluta da Ata­turk hanno ottenuto soltanto miseria e lutti e che dalla realtà rivelata dal terremoto potrebbero aver subito l’ultimo shock. Allarmata e anche la Tusiad, la confindustria turca, che chiede, tre settimane dopo il sisma, più democrazia politica, perché la libertà economica non è sufficiente. Il terremoto ha reso evidente che "il re è nudo", ma non sarà facile, nella Repubblica dell'odio, arrivare a quella transizione democratica di cui forse cominciano ad avver­tire la necessita le società multinazionali e i governi sostenitori della Turchia per i propri interessi industriali, commerciali, finan­ziari, allarmati dall'eventualità che il disgusto e la rabbia dei sudditi turchi si orientino verso un islamismo radicale.

 

La svolta del PKK e la pace dei forti

 

Dopo il sequestro di Ocalan, il premier Ecevit aveva invitato i militanti e le militanti del PKK «a scendere dalle montagne» perché ormai la loro lotta non aveva senso e nello stesso tempo aveva intensificato le operazioni militari: dal governo, non era stata intrapresa nessuna iniziativa di pacificazione. La guerra continuava. Come prima i partigiani kurdi utilizzavano come retrovie gli stati confinanti nonostante gli accordi americani e turchi, come prima si scatenavano le grandi "definitive" offensive dell'esercito turco.

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Nei giorni caldi del sequestro di Ocalan, era in corso nei pressi del Kandil, un monte che è il simbolo della storia e della resistenza del Kurdistan, tra le frontiere di Iran e Iraq, il VI Congresso del PKK. Il Congresso si era concluso agli inizi di marzo. In questo "Congresso della vittoria", a cui secondo «Ozgur politika» avevano partecipato oltre 300 delegati, Ocalan è stato riconfermato all'unanimità presidente del partito e indicato come interlocutore della Turchia per il processo di pace, obiettivo principale del PKK. Prendendo atto della assoluta assenza di aperture al dialogo da parte turca, il PKK tuttavia aveva deciso di creare non soltanto un PKK-sud per le operazioni nel Kurdistan iracheno (in risposta dell'accordo di Washington, che imponeva ai leader kurdi di combattere insieme il PKK) ma anche un "Esercito popolare di liberazione dell'Anatolia" per estendere la guerra a tutta la Tur­chia, in particolare alle regioni del mar Nero e del Mediterraneo: «O in questo mondo ci è concesso di coabitare nell'uguaglianza, o non permetteremo di esistere a coloro che negano il nostro diritto alla vita». Il Congresso aveva invitato i militanti a evitare ogni violenza nei paesi della diaspora e «a manifestare nel rispetto della legalità».

Il "Congresso della vittoria" del PKK aveva dunque ribadito la priorità della ricerca della pace, abbracciando la linea pacifi­sta del suo presidente incarcerato – dalla fortezza di Imrali, Ocalan ha infatti continuato a ripetere la volontà di una soluzio­ne pacifica della questione kurda, già espressa nel corso del “processo” e di una trasformazione del PKK in un partito poli­tico, non più combattente. Ma lo stesso Congresso aveva anche rilanciato con forza la lotta armata nel caso di persistente sordità di Ankara e del mondo alla volontà negoziale kurda. Meno di sei mesi dopo, il PKK compie una svolta clamorosa. Nel corso di una riunione del comitato centrale avvenuta tra il 23 e il 29 luglio 1999, il partito decide di conformarsi completamente agli ordini di Apo e annuncia la sospensione della lotta armata e il ritiro delle formazioni della guerriglia dalla Turchia a partire dal pri­mo settembre. La decisione di interrompere le attività militari, secondo i dettami di Ocalan, era stata già in precedenza adottata dal Consiglio presidenziale, organo politico del partito. «Batte a Imrali il cuore del Kurdistan. La resa è dei deboli, la pace è dei forti» aveva dichiarato il Consiglio attraverso il comandante Osman Ocalan, fratello del presidente. Il cessate il fuoco vale anche nei confronti delle milizie di Massud Barzani, che collabo­rano con Ankara; e vengono nello stesso tempo avviate trattative con il partito di Barzani (PDK-Iraq) per consentire il passaggio, sul territorio da esso controllato, di migliaia di guerriglieri diret­ti alle aree governate dall'UPK di Jalal Talabani, che in altre occasioni, dal 1992 in poi, aveva ospitato militanti, dirigenti e organizzazioni del PKK.

La catastrofe del terremoto del 17 agosto induce il PKK ad anticipare l’abbandono della lotta armata per favorire le operazio­ni di soccorso. «Mentre si deve affrontare il disastro – ha comu­nicato il Consiglio presidenziale – il nostro partito ha fermato la guerra e lavora per la pace e questo è un grande sostegno per la Turchia e per il suo popolo». Il 25 agosto inizia quindi il ritiro delle formazioni della guerriglia, sotto l’intensificato fuoco turco: Ankara non aveva mai smesso le operazioni belliche, neppure nei giorni terribili del terremoto, anzi in quel periodo moltiplicava gli attacchi, annunciando trionfalmente il numero delle quotidiane vittime kurde.

Nella riunione di fine luglio il vertice del PKK, che aveva riconfermato il "pieno appoggio" ad Ocalan, aveva espresso la volontà di impegnare il partito a favorire una transizione demo­cratica in Turchia, prevedendo l'imminente convocazione di un Congresso straordinario mirato all'elaborazione della nuova linea politica al dichiarato scopo di «prendere parte al nuovo ordine mondiale usando metodi di lotta politica». Sta in queste parole la particolare rilevanza della decisa svolta del PKK: il Comitato centrale, infatti, affermava in proposito: «Il nuovo ordine mondia­le determinato dagli Stati Uniti riguarda anche il Medio Oriente,

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come altre aree. Benché alcune forze della regione facciano ad esso resistenza, esse dovranno comunque seguire il nuovo proces­so». E nel proporre la tregua al partito di Barzani (attuata dal primo settembre 1999), il PKK si era dichiarato pronto al dialogo per “l’unificazione nazionale”.

Un processo, questo, che richiede, da ogni organizzazione del Kurdistan, lungimiranza e fermezza contro ogni strumentalizza­zione. La lunga strada per arrivare alla formazione di un organi­smo dotato di ampia rappresentatività si è conclusa ad Amster­dam dove, il 24 maggio 1999 nasceva il "Kongra netewiya Kurdi­stan " (Congresso nazionale del Kurdistan), fondato dai delegati di partiti e di associazioni di tutto il Kurdistan. Alla presidenza è stato eletto Ismet Sherif Vanly, figura storica del nazionalismo kurdo, giurista, autore di importanti saggi storico-politici. Scopi del Congresso: l’unità, l’autodeterminazione, la protezione del­l’identità nazionale. Il Congresso dovrebbe essere la più alta autorità politica del Kurdistan e dovrebbe assumere il ruolo di unico interlocutore sulla questione kurda a livello internazionale. C’è da augurarsi che finiscano per aderirvi, superando gli ordini americani e il comprensibile timore dell'egemonia del PKK, tutte le organizzazioni, compreso il PDK-Iraq.

Stanno cambiando gli scenari di un'area in cui un popolo martoriato ma senza rassegnazione è costretto a combattere per la sopravvivenza? Nello stesso periodo in cui ll PKK rivelava gli esiti del vertice di luglio, si riattivava freneticamente la diplomazia di Baghdad e si reiterava il patto anti-kurdo tra Ankara e la ben poco amata Teheran, tanto da far pensare che sia in vista il riconosci­mento di una reale autonomia per una parte del Kurdistan irache­no [[[Nota: Si tratterebbe dell'applicazione del piano di riassetto dell'Iraq denominato "Luna crescente", presentato dall'amministrazione americana ai leader kurdi Barzani e Talabani a Washington nel settembre del 1998]]]: ipotesi, questa, a cui Turchia e Iran, nonostante i loro non cordiali rapporti con l’Iraq, si oppongono strenuamente. Soltanto il tempo potrà dire se la svolta del PKK porterà frutti di pace e con quali scopi e risultati verranno eventualmente affrontate a livello internazionale la questione kurda nel suo complesso e la sorte di Ocalan mentre, con il vertice previsto alla fine del 1999, sembrano aprirsi ad Ankara le porte dell'Unione Europea [[[Nota: C'è da augurarsi che nella prospettiva di un ingresso della Turchia nell'Unione vengano prese le necessarie precauzioni per evitare che l’Europa diventi «sempre più discarica del degrado criminale» (l’espressione è di Vielmini, nell'articolo citato).]]]. La decisione del PKK di sospendere la lotta armata e la chiamata in causa del nuovo ordine mondiale voluto da Washington fanno ritenere che esistano prospettive in cui il partito di Ocalan ripone fiducia, nonostante l’ombra dei tradimenti perpetrati nei confronti del popolo kurdo dalle potenze del XX secolo; nel periodo del ritiro delle forze del PKK, Ankara non dava alcun segnale di pace, anzi intensificava le operazioni militari e escludeva gli oltre diecimila detenuti politici kurdi da una legge di amnistia invisa all'opinione pubblica che, se approvata, metterebbe in libertà, secondo i me­dia, «Politici, mafiosi, torturatori e costruttori» responsabili dei crolli per il terremoto.

 

CTV e la nuova televisione dell'antica Media

 

Una pace nella giustizia sembra lontana; ma il popolo kurdo, che era stato ridotto al silenzio dalla chiusura di MED TV, ha vinto la battaglia per la diffusione della propria lingua, cultura, informazione. Una battaglia fondamentale per l’affermazione dell'identità e della dignità di un popolo negato. Una vittoria della determinazione kurda e della solidarietà europea contro lo spie­gamento di forze messo in campo da Ankara.

Il 12 maggio 1999, a quasi due mesi dalla fine di MED TV, una misteriosa emittente satellitare diffonde, con le immagini delle montagne e delle vallate del Kurdistan, la musica e i canti che

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hanno attraversato i secoli nell'antichissima lingua dei medi. Si chiama CTV, chiede aiuto per poter continuare a trasmettere. Il personale e gli studi di produzione sono gli stessi di MED TV. La nuova emittente conclude le trasmissioni alle ore 23 con l’inno della Repubblica di Mahabad e dopo quindici giorni di presenza nell'etere inizia a diffondere, a mezzanotte, le puntate di uno sceneggiato sulla vita di Gesù; a rotazione, le puntate sono in kurdo, arabo, turco. Per quanto la nuova televisione non trasmet­ta ancora programmi di informazione e di attualità, né gli apprez­zati programmi per bambini di MED TV, tra i kurdi i commenti sono immediatamente positivi: lo sceneggiato è ben fatto, trova­no, e alcuni, forse memori dell'islamizzazione forzata e dei suoi deleteri effetti sulla loro storia, concludono che «è meglio Gesù dell'Islam». Commuove ed entusiasma la pronta resurrezione dell'emittente satellitare in lingua kurda. Dal 29 maggio CTV inizia a trasmettere servizi e notiziari. Poco dopo, fonti kurde e agenzie di stampa rivelano che la CTV (Cultural Television) è

un'emittente britannica, munita di licenza inglese, di ispirazione cristiana. Ha siglato un accordo con la BDR, la società che produceva MED TV e si avvale degli studi Roj Nv, in Belgio, gli stessi di MED TV. Anche la frequenza satellitare è la medesima. Per circa un mese le ore di trasmissione sono limitate a sei al giorno, poi CTV trasmette con un orario pieno. L'emittente si richiama all'art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani e all'art. 10.1 del trattato europeo per la protezione di tali diritti, che garantiscono non soltanto la libertà di espressione, ma anche il diritto di cercare e ricevere informazioni, negato alla maggior parte dei kurdl [[[NOTA: Rimane esclusa dalla fruizione di CTV la parte di Kurdistan controllata da Baghdad, dove è rigorosamente vietato il possesso di ricevitori satellitari]]].

Per evitare pretesti di chiusura, CTV non diffonde programmi in diretta; sottopone alla censura preventiva dell'ITC i propri servizi 24 ore prima della trasmissione e i propri notiziari giornalistici 4 ore prima. Sagge precauzioni, vista la capacita di interven­to dimostrata da Ankara anche nell'Europa dei diritti, nell'Inghil­terra della Magna Charta. Nell'agosto 1999, i programmi di CTV cedono il passo, nell'orario serale, a un'altra emittente. Il suo, nome è Medya Tv: la rete cristiana ha traghettato nell'etere una televisione nuova, creata dalla società kurda BDR, nella quale rivive la valorosa MED TV. Il popolo dell'antica Media, dopo quasi un secolo di negazione, di persecuzioni, di massacri, torna a riaffermare, su scala planetaria, la propria esistenza, la propria identità.

«Io lo so e tu lo sai – aveva scritto Sherko Bekas in una poesia dedicata al genocidio dei kurdi in Turchia – finché rimane un seme per la pioggia e per il vento, la foresta non finirà».

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APPENDICE STORICO-CULTURALE

1. La Media e il Kurdistan

 

Dopo la creazione del mondo e degli uomini, «quando il sole entrò nel segno dell'Ariete e la terra si rivestì di splendore, di ordine e di luce; quando dal cielo l’astro di fuoco raggiò cocente e una ventata di giovinezza discese sulla terra, allora Gayamers divenne signore del mondo. La sua prima dimora fu tra le montagne, e da una di quelle vette innalzò la sua fortuna». Gayamers fu il primo re della mitologia iranica, raccon­tata intorno all'anno mille dal grande scrittore persiano Firdusi nel poema “Il libro dei re”. Dopo Gayamers, altri tre "re dei re" governarono con saggezza e generosità finche il trono venne occupato dal tiranno Dahok. Il diabolico despota aveva sulle spalle due mostruose escrescen­ze, due serpenti, che dovevano essere alimentati ogni giorno con il cervello di due giovani. Il primo a ribellarsi a quell'orrendo tributo fu un semplice fabbro, Kawa. Kawa riuscì a farsi ricevere dal sovrano dinnanzi all'assemblea dei grandi e gridò: «Sono Kawa, sire. Chiedo giustizia e me la devi accordare... E’ da tempo che eserciti su di me la tirannia, più volte mi affondasti il pugnale nel petto. Se non avevi la volontà di opprimer­mi, perché hai levato la mano sui miei figli? Ne possedevo diciassette, ora non me ne resta che uno. Rendimi quest'unico figlio... Nel mondo non esiste legame pari a quello che ci vincola alla prole. L'ingiustizia deve avere un centro e una fine, e anche la tirannia ha bisogno di un pretesto ... ». Il tiranno, turbato da segni premonitori di sciagura, ordinò che al fabbro fosse restituito l’ultimo figlio, poi chiese a Kawa di sottoscrivere una dichiarazione, stesa dai suoi dignitari, che proclamava la dignità e la giustizia del sovrano. Kawa lesse quella falsa dichiarazione, e la strappò, la calpestò e uscì dalla reggia con il figlio. Percorse le strade

della città chiamando a raccolta la folla contro l’ingiustizia. Si tolse il

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grembiule che usava quando forgiava con il martello, lo issò su una lancia e gridò «Dichiarate ad alta voce che il vostro attuale padrone è un Ahriman, [[[NOTA: il principio del male nella religione mazdeica del profeta Zardasht (Zoroastro)]]] che il suo cuore è nemico di Dio. Questo grembiule senza valore e senza prezzo sara il segno che distinguerà le voci degli amici da quelle dei nemici».

Il fabbro e i suoi seguaci indussero Faridun, il legittimo erede al trono il cui padre era stato ucciso e spodestato, e che viveva nascosto, a intervenire contro il tiranno con un esercito di cavalieri preceduti da bufali e elefanti «Con la testa ben alta, carichi di bagagli». La vittoria di Feridun fu resa possibile dalla gente di Kawa: nella capitale del tiranno «Le terrazze e le porte erano coronate dagli abitanti della città, da tutti quelli che potevano portare armi; ciascuno parteggiava per Feridun, i loro cuori sanguinavano sotto l'oppressione di Dahok. Mattoni precipi­tavano dalle mura, pietre dalle terrazze; nella città piovevano colpi di spada e frecce di legno di pioppo, come la grandine cade dalla nube nera... I giovani della città, tutti coloro che erano in eta e atti al combat­timento, si unirono all'esercito di Feridun, affrancandosi dal magico potere di Dahok... Dal tempio del fuoco si levò un grido: "...Non tollereremo che Dahok resti sul trono, l'empio dalle spalle coronate di serpenti". Soldati e cittadini si presentarono uniti al combattimento e la loro massa sembrava una montagna. Dalla città splendente si innalzò una polvere che oscurò il sole». Così Dahok venne sconfitto per sempre.

La storia nazionale e il calendario, per i kurdi, hanno origine dalla rivoluzione popolare guidata dal fabbro Kawa e iniziano il 21 marzo del 612 a.C. E’, questo, l'anno della caduta di Ninive, la capitale del potere assiro, simbolicamente rappresentato nel tiranno serpentiforme Dahok, il cui regno durò mille anni. Il nobile Faridun, che Kawa convinse a intervenire contro il despota, e il suo possente esercito, sono la versione leggendaria dell'armata dei medi, che scese in campo contro gli assiri dalle regioni iraniche, a nord-est di Assur. I medi riuscirono a vincere gli assiri con l'aiuto della popolazione autoctona di quell'area dell'Alta Mesopotamia in cui i dominatori avevano situato il cuore dell'impero: nella terra dei kurdi gli assiri avevano costruito Ninive, l'ultima, splen­dida capitale, e il popolo delle montagne era direttamente esposto

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all'oppressione ma le selvagge "montagne che nessuno conosce" come viene definita la catena dei monti del Kurdistan in una iscrizione assira, offrivano rifugio contro la barbarie dei conquistatori e rendevano diffi­cile e a volte impossibile la penetrazione delle armate assire; già allora quei montanari avevano sviluppato le tecniche di guerriglia descritte da Senofonte nella sua Anabasi, tecniche di resistenza fondate sulla perfetta conoscenza di un territorio aspro e impervio che si sono perpetuate nei secoli; la lotta di popolo contro le invasioni si può considerare una delle particolarità della cultura dei kurdi per i quali il capodanno iranico, Nawroz, è la festa nazionale della liberazione, celebrata ovunque nel mondo in ricordo dell'impresa di Kawa: il fabbro aveva trasmesso la notizia a tutto il paese con grandi falò accesi di vetta in vetta.

L'accendere i falò prima dell'alba dell'equinozio di primavera è una tradizione del mondo agricolo indo-europeo che si perde nella notte dei tempi; questa usanza ben si conciliò, più tardi, con la religione che, attraverso il profeta Zardasht (Zarathustra) pacificamente si diffuse tra i popoli iranici: i primi a credere in un unico Dio, Ahura Mazda, il buono, onorato con il fuoco perenne. In una folgorante sintesi culturale, nel mito di Kawa e nel significato del capodanno kurdo si fondono i falò della primavera, la sacra fiamma del mazdeismo e il fuoco della libertà.

La terra dei kurdi è una regione di monti e vallate, di laghi e di fiumi. Si stende per circa 500.000 km quadrati tra il mar Nero a nord e le colline di Hamrin che delimitano la Bassa Mesopotamia a sud, tra la regione di Jazira e i monti del Taurus a ovest e I'altipiano iranico a est e si allunga a sud-est dai monti Zagros fino a lambire il golfo Persico. Il Kurdistan comprende le sorgenti e l'alto corso dell'Eufrate e del Tigri, i loro affluenti e altri fiumi come il Grande e il Piccolo Zab e il Dayala; i laghi più importanti sono situati a una certa altitudine: si trova a 1250 metri sul livello del mare il vasto e salato Urmya e a 1750 metri quello di Van. Sono in Kurdistan le vette più alte del Medio Oriente: l'Ararat, a nord, che si avvicina ai 6 mila metri e a sud il Pir Omagrun, di oltre 4 mila. La ricchezza di acque ha favorito agricoltura e allevamento, oggi è una risorsa idroelettrica. Il sottosuolo è ricco di minerali; il Kurdistan meridionale è uno dei giacimenti più importanti al mondo di idrocarbu­ri e fornisce il 70% del petrolio iracheno.

I kurdi sono una delle popolazioni più antiche del Medio Oriente. Secondo gli etnologi, i kurdi discendono da una popolazione forse

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autoctona che intorno al primo millennio a.C. si fuse con quella, affine, dei medi. L'autorevole storico Tawfik Whaby afferma che i kurdi di oggi sono medi, a differenza dei primi kurdi proto-indoariani, che non lo erano. E i kurdi stessi si definiscono anche medi. Risale ai primi secoli successivi alla conquista islamica la denominazione di "Kurdistan" — terra dei kurdi — per l'Alta Mesopotamia e la Media. Il primo europeo a menzionare la terra dei kurdi fu Marco Polo che nel Milione indica il Kurdistan tra le otto province di Persia. Nelle prime carte geografiche del XVI secolo è raffigurato anche il Kurdistan, così descritto nel 1667 dal missionario domenicano Pietro della Valle: «Il Kurdistan va da Baghdad a sopra Nineve, dal Golfo Persico all'Armenia, non lontano dal Mar Nero». I medi, stanziati nei territori intorno al lago di Urmya, nella parte settentrionale dell'altipiano iranico, almeno a partire dal IX secolo a. C. fondarono un grande impero che comprendeva l’attuale Kurdistan. La loro capitale era la splendida Ecbatana che sorgeva dove ora si trova la città kurda di Hamadan (Iran). L’impero dei medi si fuse poi con quello persiano; i persiani adottarono largamente le tradizioni e le usanze dei medi, come ricorda Erodoto. Il potente Impero medo­persiano conservò come emblema il grembiule di cuoio del fabbro Kawa, che il giovane re Faridun aveva cosparso di gemme e d'oro e coronato con un disco simile alla luna e al quale tutti i suoi successori sul trono del re dei re avevano aggiunto gioielli, ricchi broccati e sete dipinte. Un umile grembiule del fabbro, diventato il vessillo di Kawa, «Brillava come un sole nella notte fonda e riempiva di speranza il cuore del mondo». Secondo i medi, il vessillo di Kawa fu perso per sempre nella battaglia di Kadissija, quando l’ultimo "re dei re", il giovanissimo Yazdegar, venne sconfitto dalle armate islamiche che quindi dilagarono nelle terre dei medi e dei persiani.

Le scoperte archeologiche hanno rivelato che il Kurdistan, dotato di una singolare unitarietà geografica, fu teatro, in ogni sua parte, di un'evoluzione contemporanea verso la civiltà almeno dal periodo me­dio-paleolitico. Colpisce, in questa terra, l’attualità di un passato remo­tissimo. Le gigantesche grotte di Shanidar e di Hazarmerd, nel Kurdi­stan meridionale, vaste e alte come immense cattedrali, e quelle di Behistun a oriente, sono usate dai pesh merga della resistenza kurda come erano usate 50 mila anni fa dalla popolazione di allora. Tutto il paese è ricchissimo dal punto di vista archeologico; ma da quando, con il Trattato di Losanna, nel 1923, le potenze occidentali vincitrici dell'Im­pero ottomano decisero di rendere il Kurdistan colonia divisa tra quat­tro stati, come ogni altro aspetto della storia e della cultura anche quello archeologico è stato volutamente trascurato o dimenticato. Così come si ignorano le reminiscenze bibliche che altrove sarebbero motivo di stu­dio e di attrazione. Sembra essere in Kurdistan, nell'unico luogo ricco di acque e di verde del mondo orientale antico, il giardino dell'Eden, tra le sorgenti dei grandi fiumi dell'Alta Mesopotamia (Gn 2, 10-14); la leggendaria tomba di Daniele si venera a Kirkuk; nei pressi di Urfa i devoti rendono omaggio alla Fonte di Abramo e sul monte Cudi — il Jebel Judi del Corano — secondo le fonti orientali sarebbe approdata l’arca di Noe, che alcuni occidentali cercano molto più a nord, sull'Ara­rat, sempre in Kurdistan. ll punto di frontiera sul fiume Habur che collega la Turchia al Kurdistan iracheno non è un'invenzione moderna, come si potrebbe pensare vedendo il ponte metallico che unisce le due sponde. Per i montanari del posto quel valico continua a chiamarsi Ibrahim Khalil — il venerando Abramo — perché da li — così si tramanda da innumerevoli generazioni — transitò il patriarca nel suo viaggio da Ur alla Palestina, attraverso l’odierna Urfa, nella piana di Harran.

 

Da Ahura Mazda ad Allah

 

Soprattutto in Iraq e in Iran, non pochi kurdi dichiarano di non sentirsi musulmani e ricordano che la loro religione era il mazdeismo.

Dopo la conquista araba della Media e della Persia, gruppi di fedeli di Ahura Mazda si dispersero lontano; in India diedero origine alla comunità dei parsi, poco numerosa ma rilevante, per il contributo che offrì alla lotta per l’indipendenza e allo sviluppo del subcontinente. Alcuni gruppi di fedeli rimasero in patria, nascosti in luoghi inaccessi­bili, dove conservarono il fuoco sacro. In Iran sono sopravvissute, almeno fino al 1979, piccole comunità mazdeiche e nelle regioni kurde divise tra i confini di Turchia, Iraq e Siria vivono oltre 100 mila kurdi yazidi, seguaci di una religione sincretica che innesta elementi cristiani e islamici su una base che risale allo zoroastrismo e al precedente mitraismo. Il centro della religione yazidi e il tempio di Ain Sifni, sul cui portale veglia un grande serpente di pietra nera, situato nella suggestiva valle di Lalish, nel Kurdistan iracheno.

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La conquista islamica si completò in circa tre secoli, a partire dalla battaglia di Kadissija nel 651, che aprì agli arabi la strada verso la Media. Alcuni storici considerano la forzata islamizzazione come il primo genocidio nella storia kurda, per il numero elevatissimo di vittime tra i fedeli di Ahura Mazda. Ma ancor più catastrofiche, se possibile, sono state le conseguenze culturali di quel genocidio. Alla religione di Zardashst (Zoroastro o Zarathustra) filosofica, tollerante, rispettosa anche del mondo vegetale e animale, si sostituì una religione assolutista, che considerava la donna una proprietà maschile. La reli­gione islamica ha influito negativamente sull'evoluzione sociale, in particolare sulla condizione femminile, anche se nella società kurda la donna anche dopo l'islamizzazione ha mantenuto un ruolo importan­te. Nella storia kurda vi sono state donne a capo di clan e di principati, in pace e in guerra; si ricordano donne esperte nell'arte medica e nella letteratura, influenti in politica. Nei canti del ricchissimo folklore kurdo le donne molto frequentemente non sono soltanto oggetto d'amore, ma protagoniste, siano esse aristocratiche o popolane. Nei poemi più famosi intitolati a celebri coppie che vivono vicende d'amo­re e di morte, Gule e Sher, Khajeh e Siaband, Mem e Zin, è la donna l’elemento forte della vicenda. In Kurdistan le donne non si coprono il viso con il velo islamico; tutti i viaggiatori occidentali che, nei secoli scorsi e agli inizi del nostro visitavano quelle terre e ne scrivevano, ci hanno lasciato resoconti stupiti per la "libertà" delle donne kurde che, a differenza di quelle dei popoli vicini, non si coprono il volto, vestono abiti dai colori smaglianti e adatti a far risaltare la loro figura, danzano e fanno musica insieme agli uomini nelle feste popolari, partecipano alle gare di abilità a cavallo.

Le conseguenze negative dell'islamizzazione si fanno sentire pesante­mente in campo politico durante tutta la storia del Kurdistan. La mancan­za di differenziazione tra la religione del popolo kurdo e quella degli stati dominanti ha rallentato o fermato il movimento di liberazione nazionale nel corso dell'Ottocento e anche nel secolo XX la religione è stata usata contro gli interessi del popolo kurdo. All'epoca della fondazione della Turchia, Kemal Ataturk fece credere ai rappresentanti kurdi che il nuovo stato sarebbe stato di fatto bi-nazionale, in quanto turchi e kurdi erano della stessa fede; in questo modo non soltanto ai kurdi venne negata la possibilità di uno stato autonomo: vennero esclusi dalle clausole imposte alla Turchia nel Trattato di Losanna a difesa delle minoranze, che si riferivano soltanto ad alcune minoranze religiose.

Ma, per quanto islamici, i kurdi accendono ancora i fuochi sulle mon­tagne, celebrando un Capodanno che ricorda una diversa religione: la differenza etnica e culturale può così diventare giustificazione al genocidio. Quando Saddam Hussein decise, nel 1987, la soluzione finale della que­stione kurda, chiamò Anfal l'operazione di sistematico sterminio dei kurdi; Anfal, dal capitolo VIII del Corano dedicato alla guerra contro gli infedeli, significa "prede di guerra"; in tal modo il genocidio poteva essere presen­tato come guerra santa a difesa della purezza dell'Islam, di cui allora il laico Saddam Hussein iniziava, strumentalmente, a dichiararsi sostenitore.

In Iran, dove il partito autonomista kurdo (Partito  democratico del Kurdistan-Iran) aveva contribuito alla caduta dello scià, l’ayatollah Khomeini dopo la vittoria, tradendo gli accordi con i leader kurdi, mandò l’esercito e l’aviazione a massacrare il Kurdistan, in nome del­l’unità dei fedeli.

Nel Kurdistan il sole dei medi era scomparso, sostituito dalla mezza­luna dell'Islam. Lo stendardo di Kawa era stato perduto per sempre nella battaglia di Kassidjia. Ma nel corso del 900, il califfato si trovò già in crisi, minato da lotte interne. La società kurda approfittò della debolezza del potere per riguadagnare la propria autonomia sotto la guida dei principi delle antiche dinastie. Già nel X secolo si erano formati alcuni regni kurdi indipendenti. Sulla riva dell'alto Tigri l’antica Amed fu capitale dei principi Merwan [[[NOTA: La città cinta dai possenti bastioni di basalto nero, che prese due secoli dopo il nome arabo di Diyarbakir, era chiamata Amida dai romani, i quali la contesero a parti e sasanidi]]]. Altri forti principati erano quelli dei principi Shaddad, nel Kurdistan del nord e degli Hassanwahid, nel sud.

Come tutta l'Alta e Bassa Mesopotamia, i regni kurdi vennero travolti dalle successive invasioni delle orde mongole, conoscendo massacri, distruzioni, miseria. La popolazione lasciava le città saccheggiate per rifugiarsi sulle montagne, interi villaggi cercarono scampo in Siria e nel Nordafrica. La prima invasione fu quella dei turchi selgiucidi (1051); meno di due secoli dopo fu la volta dei mogoli di Hulagu Khan,, poi vennero nel 1402 i guerrieri di Timur Lang (Tamerlano), khan supremo

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dei nomadi del Turkestan, il quale tuttavia lasciò al potere alcuni prin­cipi kurdi; pochi anni dopo i turkmeni del Montone Bianco tentarono invece di annientare le dinastie kurde. Tra un'invasione e l'altra, i principati riuscirono sempre a risorgere dalle ceneri, a ricostruire, a raggiungere una nuova prosperità. E il secolo XII vide salire al potere nel Medio Oriente un principe kurdo, che unificò il mondo islamico e creò un vasto impero, in cui gli eredi dei medi ricoprivano ruoli impor­tanti nell'amministrazione e nell'esercito. Era Salanddin Ayubi, della dinastia di Rawad. Per i cristiani, il Saladino.

Salanddin Ayubi visse tra il 1137 e il 1193. Combatté con successo per riconquistare Gerusalemme. Era un nemico, ma il mondo cristiano ne apprezzava le doti di umanità e ne fece un simbolo di generosità e lealtà cavalleresca. Era un infedele, ma Dante, nella sua Commedia, non si sentì di situarlo all'Inferno e lo lasciò nel Limbo: una figura appartata, grande nella sua solitudine: «E solo in parte vidi il Saladino» (Inferno, IV, 129). Era un combattente dell'Islam, ma Ephraim Gotthold Lessing,

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in “Nathan”, ne fa un esempio di tolleranza. All'epoca di Salanddin e dei suoi discendenti, gli ayubidi, l'Impero islamico si estendeva dalla Meso­potamia all'Egitto, alla Siria, allo Yemen, alla Libia, all'Arabia; nell'am­ministrazione civile e nell'esercito molti incarichi di responsabilità erano affidati ai kurdi; i connazionali del Saladino si distinsero per il buon governo e 1'abilita militare. Né Salanddin né i suoi eredi pensarono mai di creare uno stato kurdo, perché predominava all'epoca lo spirito sovranazionale dell'Islam e d'altra parte all'interno dei grandi imperi mediorientali i kurdi erano liberi di governarsi secondo le proprie tradizioni e di esprimere la loro cultura.

L'ultima, grande e duratura invasione della Mesopotamia e dell'Ana­tolia avvenne nel XVI secolo. Da oriente arrivarono i turchi osmani (o osmanidi), così chiamati dal loro capostipite Osman, più noti in Europa come "ottomani". Gli osmani erano ostacolati, nelle loro mire di espan­sionismo, dal potere persiano, che si era ristabilito in Iran con il decli­nare dei califfi arabi di Baghdad. I re di Persia appartenevano a dinastie iraniche, di solito di origine persiana; nell'ambito del grande regno, o impero, si trovavano a difendere la loro indipendenza alcuni principati medo-kurdi. Gli osmani, per ottenere l'alleanza o almeno la neutralità dei principati kurdi dell'area sottoposta alla loro influenza ma non definitivamente conquistata, adottarono il sistema del feudalesimo. I principi kurdi erano di fatto indipendenti, anche se ricevevano un'inve­stitura puramente formale da parte del sultano della Sublime Porta: avevano un proprio esercito; battevano moneta, facevano recitare a proprio nome la preghiera del venerdì, privilegio riservato ai sovrani. Erano però alleati del sultano, e dovevano partecipare con i loro armati alle sue campagne militari o contribuire alla sua difesa. Alcuni principati kurdi mantennero così il proprio splendore fino al XVIII secolo, come quelli di Hakkari, Bitlis, Botan, Sharazur. I regnanti kurdi adornavano le loro città di giardini e parchi aperti alla popolazione, di edifici raffinati, di abitazioni civili, promuovevano l’arte e la letteratura. Chiun­que abbia visto, ai giorni nostri, le città di Hakkari, Bitlis o Cizre (Jazira, già capitale del principato di Botan) stenta a credere al loro passato splendore.

La battaglia di Cialdiran nel 1514 e poi alcuni accordi tra i due imperi, tra i quali il Trattato del 1639, operano una definitiva divisione del Kurdistan in due zone di influenza, turca e persiana. Già nel 1600

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l'Impero persiano volle annientare l'indipendenza dei principati kurdi (un celebre poema epico del folklore, “Kala Dimdim” [La fortezza di Dimdim] racconta 1'eroica resistenza degli abitanti di questa città forti­ficata); l'Impero ottomano fece altrettanto, trovandosi in condizioni di fragilità, verso la fine del XVIII secolo. Resistono fino al XIX e in qualche caso fino agli inizi del XX secolo i regni di Sharazur, Hawraman (negli anni '20 governato dalla principessa Adela, descritta con ammira­zione da alcuni viaggiatori occidentali) e Soran nel Kurdistan meridio­nale, a nord quello di Hakkari, nell'area centrale dell'Alta Mesopotamia i principi di Botan e Badinan, in Persia i principati di Ardalan e Mukri.

 

“Il Talismano” di Walter Scott

 

“Il Talismano”, un romanzo di Walter Scott dedicato alla crociata di Riccardo Cuor di Leone in Terrasanta, ha come co-protagonista il Saladino, che rimane in incognito fin verso 1'epilogo, e che viene descritto come un uomo di grande generosità. “Il Talismano” evidenzia, fantasiosamente ma non impropriamente, alcuni ele­menti specifici della cultura kurda nei confronti di quella araba, come dimostra, ad esempio, questo brano.

«Valoroso saracino, permettete anche a me di domandarvi quale tribù dell'Arabia si onori di avervi per suo, e con quale nome vi chiami».

«Sir Kenneth - disse il musulmano - mi rallegra il poter pronun­ciare facilmente il vostro nome. Quanto a me, non sono arabo, ma discendo da una schiatta non meno bellicosa. Sappiate, cavaliere del Leopardo Giacente, che io sono Sherkof, il Leone della montagna e che il Kurdistan dove nacqui non conta famiglia superiore per nobiltà a quella di Seldgink».

«Ho udito dire - soggiunse il cristiano - che il vostro gran sultano vanta una stessa origine di sangue».

Sherkof, il "gran sultano" - Saladino - in incognito, aveva salvato la vita allo scozzese sir Kenneth, i due cavalieri erano diventati amici pur appartenendo a opposti schieramenti. Insieme si inol­trano tra le montagne della Siria. Via via che lo scenario si fa più aspro, crescono sia il senso di devozione penitenziale del crociato sia 1'euforia del musulmano, che intona ballate dedicate al vino e alle donne, scandalizzando il compagno con i versi e la musica dei poeti persiani e kurdi.

A una delle leggende sull'origine dei kurdi, Walter Scott si ispira per attribuire a Sherkof-Saladino il vanto di discendere dai “jiin” (geni della mitologia). Durante i mille anni del regno di Dahok, prima che il fabbro scatenasse la rivolta, il giovane capo dei “jiin” e i suoi sei fratelli salvarono sette sorelle, bellissime e sagge, destinate a cibare i serpenti del tiranno. Le portarono in un castello incantato sui monti del Kurdistan e dalle sette coppie nacquero sette figli; e questi, «Alti di statura, d'indole pia focosa e deliberata degli altri uomini che occupavano qua e 1a le valli del Kurdistan, si ammogliarono con donne di questo paese e diedero origine alla sette tribu dei kurdmani, il valore dei quali è cono­sciuto per tutto l'universo» racconta Sherkof al crociato, sempre più perplesso. E aggiunge: «... Il rispetto per questi spiriti elemen­tari (i geni) non è venuto meno nei nostri cuori neppure dopo gli insegnamenti del Corano e molti di noi cantano ancora versi come quelli che state ora per udire, a onore della più antica religione dei nostri padri». A questo punto il campione dell'Islam intona «Un canto antichissimo quanto alla lingua e allo stile» che descrive il potere di Ahriman, il principio del male al quale nella religione zoroastriana si oppone Ahura Mazda, il Bene supremo; avvalorando così il proverbio arabo, secondo il quale i kurdi sarebbero credenti soltanto se confrontati con gli infedeli.

Infine, il romanzo di Scott è un omaggio alla scienza dei medi: il talismano è il farmaco con cui il Saladino cura e salva re Riccardo e che, donato poi al cavaliere del Leopardo, continuerà a guarire generazioni di scozzesi.

 

«Dai secoli profondi verso il futuro, attraverso tempeste e tenebre»

 

La cultura della Media e del Kurdistan ha lasciato testimonianze fin dai tempi più antichi nell'arte plastica, nell'oreficeria, nell'architettura e nell'arte dei giardini. La cultura medo-persiana era impregnata del­l’amore per fiori e alberi – rose, tulipani e gelsomini erano spesso cantati dai poeti, come il melo e il salice, il ciliegio e il melograno; i giardini pensili di Babilonia furono costruiti da un re dei medi per la figlia, andata sposa a un sovrano babilonese, che soffriva di nostalgia per il verde delle sue montagne.

La lingua kurda e indoeuropea, appartiene al gruppo nord-occiden­tale delle lingue iraniche. Alessandro Coletti nella sua “Grammatica” nota che i kurdi chiamano la loro lingua anche "mada", cioè medo, e altri studiosi notano nel kurdo affinita con l'iranico arcaico della Avesta del profeta Zardasht. Intorno all'anno 1000, quando i popoli iranici, grazie alla debolezza del califato arabo, riuscirono a riorganizzarsi secondo le proprie tradizioni, venne adottata una lingua nuova e unificante, il neopersiano (farsi), diversa da quelle parlate prima della conquista isla­mica, che erano state quasi dimenticate per la prevalenza della lingua araba. Gli eredi dei medi, i kurdi, mantennero invece l’antica lingua della Media, che nei secoli ha recepito contributi da altri idiomi senza perdere il proprio carattere originario.

La lingua kurda è divisa in diversi dialetti regionali; tra essi i due più importanti, sia per la diffusione sia perché usati nella letteratura, sono il kurmangi e il sorani. Il kurmangi e parlato dai kurdi nel nord e nell'ovest e cioè in Turchia, Armenia, Siria, e fino al nord dell'Iraq e alle

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zone limitrofe, iraniane. Il sorani è parlato nel Kurdistan centrale e sud­orientale, cioè dalla maggioranza della popolazione kurda in Iraq e in Iran.

E turco è una lingua uralo-altaica, l'arabo è una lingua semita. Si tratta dunque di sistemi linguistici radicalmente diversi e si può comprendere così con quanta difficoltà, e con quanto senso di ribellione i kurdi, dopo la spartizione del Kurdistan del Trattato di Losanna, debbano adattarsi  in Iraq e Siria a universi culturali tanto distanti e quanto sia profondo e disperante il senso di alienazione dei kurdi costretti in Turchia a dimen­ticare la propria lingua e con essa la propria storia nazionale e individua­le. Come ha scritto Roland Barthes, rubare a un uomo la sua lingua è l'origine di tutti i crimini.

Dall'Avesta di Zardasht rimangono soltanto frammenti; Alessandro il macedone distrusse con il fuoco la biblioteca di Ecbatana e nessuna ricerca archeologica ha voluto riportare alla luce quella che era la splendida capitale dei medi. Artisti e architetti kurdi contribuirono al fiorire della civiltà islamica fin dai primi anni del califfato; fu un musi­cista kurdo, Mawsili, a introdurre la musica alla corte del califfo Harun al Rashid nel VII secolo e a fondare il primo, conservatorio, che venne ampliato dal figlio Isak, mentre più tardi un allievo dei Mawsili, Ziriyab, fondò la scuola musicale alla corte di Cordova.

Ricchissimo è il patrimonio musicale del folklore – epico, lirico, coreografico – con opere che si sono tramandate nel corso dei secoli. Il più antico frammento letterario in lingua kurda che sia rimasto risale al VII secolo, e descrive gli orrori della conquista islamica. Nel X secolo visse il poeta Baba Tahir di Hamadan, i cui versi ancora oggi sono molto popolari. Il periodo di massimo splendore della letteratura in kurdo si registra in concomitanza con la potenza di alcuni principi illuminati del Kurdistan centro-settentrionale (attuale Turchia), nei secoli XVI e XVII, con autori che scrivono in kurmangi, quali Malaye Jaziri e Ali Tarmuki. Insieme ad altri temi, come la mistica e I'amore, trattano quello del patriottismo. In kurmangi scrive anche il più grande autore kurdo, Ahmadi Khani, nato in Hakkari (1651-1707). 11 suo capolavoro “Mam u Zin”, e ispirato all'omonimo poema del folklore; attraverso la contrastata storia d'amore del giovane Mam e della principessa Zin di Jazira, il poeta compone un grande affresco storico-politico del suo tempo. Ahmadi Khani con forza profetica individua nella divisione tra i regnanti kurdi il motivo della debolezza dell'intero popolo del Kurdistan e invoca, contro l'oppressione, la difesa dei valori nazionali e l'unificazione. Le sue parole sono validissime ancora oggi.

Come ai tempi di Ahmadi Khani, nel nostro secolo le forze kurde, prive di ogni sostegno internazionale, anzi volutamente ignorate e avver­sate in nome del mantenimento di una terribile ingiustizia storica, sono spesso costrette ad alleanze strumentali con i paesi dominanti, usate come pedine in un gioco che vede d'accordo stati altrimenti rivali nella volontà di annientare un "diverso", il popolo kurdo.

Dal secolo XVIII, la staffetta della cultura kurda passa agli autori del sud e del sud-est, che scrivono in sorani, come Nali, autore di un bellissimo epistolario in versi, e poi Haji Kadir Koyi, che denuncia nelle sue opere l'oscurantismo, religioso e le ingiustizie sociali e il poeta satirico Shek Reza Talabani. Tutti gli autori kurdi sono ispirati da un forte sentimento nazionalistico e dal desiderio dell'indipendenza politi­ca e culturale del Kurdistan che si esprime fin dai primi anni del 1800 e per tutto il secolo in insurrezioni e rivolte a catena; alcune di esse coinvolgono l'intero Kurdistan e vedono la partecipazione delle mino­ranze etniche e religiose presenti nel paese. Intanto gli intellettuali continuano a valorizzare la cultura e la lingua kurda a scopi politici, anche con la fondazione, alla fine del secolo XIX, di riviste letterarie indipendentiste.

In sintonia con la lotta incessante del popolo kurdo per la propria sopravvivenza, la letteratura, la musica e I'arte figurativa del XX secolo è permeata dall'affermazione dell'identità nazionale. I temi dominanti sono l'amore per la propria terra e per la libertà, la denuncia dell'oppres­sione (i bombardamenti chimici di Halabja, ad esempio, hanno ispirato poeti, pittori, musicisti) la sofferenza, 1'eroismo dei martiri. Non si tratta, però di opere retoriche, perché vi è una ricerca continua di freschezza e immediatezza espressiva. I frequenti richiami alle opere del passato, ai canti tradizionali come alle opere letterarie, sono parte integrante di una cultura che non dimentica mai le proprie radici, specialmente le più antiche, e le traspone negli eventi contemporanei: «Veniamo dalle bandiere rosse della rivoluzione» – diceva l'inno della Repubblica di Mahabad, nata sotto 1'egida sovietica. Ma diceva anche, quell'inno: «Veniamo dai medi e da Kay Kosrow», il re leggendario della mitologia iranica.

La cultura kurda può svilupparsi soltanto all'estero. Sono numerosis­simi gli intellettuali in esilio che si prodigano in attività politico-culturali. In molte capitali d'Europa operano istituti e centri in cui si svolgono studi storici e linguistici, si pubblicano opere in kurdo, si organizzano mostre d'arte e concerti. Tra i più noti, l' “Institut kurde de Paris”, diretto dall'insi­gne fisico Kendal Nezan, il “Kurdistan Cultural Centre” di Londra, diretto dallo scrittore Mirawdali, l' “Institut kurde” di Bruxelles, punto di riferimento

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dei più noti intellettuali rifugiati dalla Turchia. A Berlino si trova un centro di studi giuridici, il “Science and Research Institute”, diretto dal giurista Ismet Sherif Vanly. In Svezia una casa editrice kurda presenta in catalogo molte opere classiche e contemporanee. In Germania la casa editrice “Tigris Presse” edita il quotidiano «Ozgur politika» e opere di autori proibiti in Turchia, come quelle del sociologo Ismail Besikci e i saggi politici di Abdullah Ocalan. I più noti compositori-cantanti kurdi, amatissimi da un popolo che ha un innato senso musicale, sono in esilio, come Sirwan Perwar e Nizamettin Aric, come le cantanti-compositricl Gule e Beser, quest'ultima in grado di cantare con una tecnica di grande effetto che pare risalga a una antichissima tradizione. Nizamettin Aric è anche l’autore, il regista e l’interprete del film “Un canto per Beko”, girato in Armenia, parlato in kurdo, premiato a Venezia nel 1992. Ottenne la Palma d'oro a Cannes nel 1982 il film “Yöl” del regista kurdo Yilmaz Guney, prematuramente scomparso, che in un'altra opera, “Il gregge”, descrive poeticamente e con precisione antropologica la vita dei pastori del Kurdi­stan, ormai cancellata dalle vicende belliche. Nel 1992 venne presentato, ma soltanto in circuiti ristretti, un interessante film kurdo basato su un, classico poema del folklore, “Syaband e Khaje”, storia dell'amore tragica tra un bandito gentiluomo e la figlia di un feudatario. Nel 1994 è nata una televisione satellitare che trasmette dall'Europa, fondamentale per la diffusione della cultura e della lingua, per la difesa contro l’alienazione culturale dei kurdi e delle minoranze del Kurdistan ovunque si trovino, e in generale prezioso veicolo di conoscenza della cultura. mesopotamica.

 

Adela principessa di Halabja

 

«In un remoto angolo del decadente e arretrato Impero turco, c'è un posticino che, grazie al governo di una donna kurda, si è trasformato da villaggio a città, e la sua collina, un tempo spoglia, ora splende di giardini; e queste sono innovazioni rispetto alle condizioni precedenti di quei luoghi».

Così scriveva, nei primi anni del secolo XX, E. B. Soane, un agente britannico che visse per qualche tempo alla corte dei principi di Halabja travestito da mercante persiano.

La donna è Adela Khanum (Khanum o Khan e un attributo che si aggiunge al nome femminile, sia per semplice rispetto, sia perché compete a chi e di nobile origine ed equivale a "dama" e all'inglese lady). Adela apparteneva alla dinastia dei principi di Ardalan ed era andata sposa al regnante del piccolo stato dell'Hawraman annidato tra i monti Zagros, al confine tra l’attua­le Iraq e l’Iran. Aveva governato prima per delega del marito e poi in quanto sua vedova.

Lady Adela, che indossa ricchissime vesti di seta e una profusione di ornamenti di grande valore (Soane conta, alle sue mani, diciasset­te anelli) accoglie l’ospite "persiano" seduta su un materasso di seta, fumando una sigaretta; vicino a lei una cameriera agita un ventaglio, un'altra tiene pronte le sigarette, una terza attende di versare sorbet­to e acqua di rose. «Quando entrai, lady Adela mi sorrise e mi fece cenno di sedere vicino a lei sul materasso, e mi salutò con il saluto kurdo vecchio stile». La dama dunque riceve l’ospite straniero di sesso maschile di propria iniziativa, con regale dignità e benevolen­za. Nulla di strano, se non fossimo nel mondo islamico del primo Novecento. In quegli anni, le donne erano escluse da ogni relazione sociale e indossavano il velo. Lady Adela non soltanto, secondo l’usanza kurda, non è velata, ma ha anche il volto accuratamente truccato, come voleva la moda occidentale degli anni '20; il viaggia­tore britannico preferirebbe un maquillage più sfumato.

«Al primo sguardo si notava che era di pura origine kurda — continua Soana — Lo si capiva dallo stretto viso ovale, con la bocca piuttosto larga, occhi neri scintillanti, naso sottile leggermente aquilino; e dalla sua snellezza, in perfetta armonia con la classica struttura kurda, che non è mai grossa. Sfortunatamente, ella ha l’abitudine di incipriarsi e dipingersi, così che gli orli dipinti di nero delle palpebre spiccano in un contrasto innaturale con la fronte bianca di cipria e con le guance rese rosse dal trucco. Questa imperfezione tuttavia non celava la precisione dei suoi lineamenti ... ».

Un altro ritratto di Adela Khanum è disegnato da Vladimir Minorsky, il più autorevole studioso occidentale del Kurdistan e del popolo kurdo, che incontrò la principessa nell'autunno del 1914 ad Halabja. «Ella si comporta con grande dignità — racconta Minorsky — Venne al nostro campo a restituirci la visita con un seguito di ‘brus’ e di servitori e acconsentì volentieri a essere fotografata. Ringraziò per i doni fatti a suo figlio con una lettera in francese che era stata scritta, come apprendemmo, da un giovane kurdo che studiava presso i missionari cattolici a Senneh». Anche Minorsky ricorda che Adela Khanum aveva acquistato grande prestigio per 1'equilibrio e la saggezza che dimostrava nell'amministrare la giustizia. I racconti di Minorsky e di Soane contengono tre elementi che caratterizzano la vita del Kurdistan ancora durante i primi vent'anni del secolo XX: la prosperità dei principati kurdi, spesso oasi di buon governo nell'ambito del corrotto, decadente Impero ottomano (nell'Impero persiano non erano più indipendenti); l’importanza del ruolo della donna nella società kurda; la tradizionale differenza di comportamento e di abbigliamento tra le donne kurde e quelle degli altri paesi islamici e delle armene cristiane.

 

Trentacinque milioni di kurdi: una nazione, nessun diritto

 

Il popolo kurdo possiede tutti i requisiti per l’autodeterminazione riconosciuta come diritto dall'art. 1 e dall'art. 73 della Carta delle Nazioni Unite. Dal punto di vista giuridico la mancata realizzazione di quanto stabilito nel Trattato di Sèvres (1920) può essere la base per l’applicazione, almeno, di una reale autonomia a una parte del Kurdi­stan. Dal punto di vista dei diritti umani, è ormai chiaro che un ritardo da parte delle grandi potenze nell'affrontare la questione kurda con gli strumenti di una politica di pace assume il significato di una loro definitiva complicità nell'etnocidio. La questione kurda è la più grave tra le ingiustizie nate dalla spartizione colonialista dell'Impero ottomano per tre motivi: la consistenza numerica della nazione kurda, la sua specificità etnica e culturale, che la priva del sostegno di paesi "fratelli" o ritenuti storicamente vicini (il mondo arabo sostiene i palestinesi, la Turchia appoggia i bosniaci e kosovari, un tempo sudditi ottomani, convertiti all'Islam), e infine per l’ampiezza e la radicalità della repres­sione, che ha inflitto al popolo kurdo ottant'anni di indicibili sofferenze.

Sulla consistenza della popolazione kurda non esistono dati recenti. Esiste una stima pubblicata dall'Human Development Report Office (New York, 1992) realizzata sulla base di dati ufficiali di popolazione totale dei vari paesi. Secondo l’HDRO, dunque, i kurdi in Turchia sarebbero circa 13 milioni, i1 23 % della popolazione turca; in Iran circa 9 milioni, il 16% del totale; in Iraq quasi16 milioni, il 28% dell'intera popolazione irachena; in Siria circa 1,5 milioni e cioè l'11 %; 1,2 milioni ,

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sarebbero i kurdi in Armenia e in altre repubbliche ex sovietiche e 150 mila in Libano. La diaspora

kurda supera il milione: nella sola Germania I kurdi sono almeno 600 mila. Secondo la stima dell'HDRO, il totale è di circa 31 milioni; alcuni ricercatori di università americane e le organizzazioni kurde ritengono questa cifra inferiore alla realtà odierna. Può essere attendibile, a quasi dieci anni dalla stima dell'HDRO, la valuta­zione di trentacinque milioni di kurdi. Nonostante l’importanza della nazione kurda e le atrocità commesse nei confronti dei kurdi, all'ONU non è ammessa neppure la presenza di un delegato del Kurdistan con funzioni di osservatore, come avviene in altri casi di nazioni senza stato.

Le potenze occidentali che hanno reso il Kurdistan una colonia internazionale attraverso i regimi autoritari al potere usano le immense risorse del Kurdistan – petrolio e acque – per i propri scopi strategici ed

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economici. Le popolazioni dell'area devono rimanere nel "terzo mon­do" per gli interessi del "primo mondo"; soltanto la più feroce repres­sione può garantire lo status quo. Le risorse del Kurdistan servono alle potenze occidentali e ai regimi coloniali che dominano i kurdi anche a comprare armamenti per completare il genocidio. Grandi sforzi vengo­no profusi per impedire l'unificazione del popolo kurdo.

Milioni di kurdi, dunque, non hanno il diritto di esistere. Forse anche perché c'è il rischio che il popolo kurdo, se soltanto gli si concedesse di vivere e di organizzarsi politicamente, porterebbe nel Medio Oriente la voce della democrazia. Lo ha dimostrato appena ha potuto farlo, con la Repubblica di Kocguiri in Turchia, quella di Mahabad in Iran e con l’autogoverno della Regione autonoma in Iraq (1992). Ancora oggi, in questa regione soffocata dal doppio embargo l'amministrazione kurda riesce a organizzare scuole in aramaico per i cattolici-caldei e per la prima volta gli yazidi possono creare centri culturali e approfondire gli studi religiosi. Forse si teme che la liberazione del Kurdisian possa portare alla liberazione altri popoli del Medio Oriente, asserviti a regimi in vario modo autoritari. Nessun partito kurdo si contrappone agli altri popoli dell'area con intenti nazionalistici; questi partiti si definiscono "del Kurdistan" e non "kurdi" per rispetto delle minoranze etniche e religiose,che con i kurdi condividono la stessa terra e le stesse persecuzioni. Tutti hanno avuto sempre nei loro programmi l'autonomia del Kurdistan nell'ambito di un governo centrale democratico e negli ultimi anni hanno progettato una federazione con ciascuno degli stati in cui il paese e diviso; anche,il PKK ha formulato, dopo un iniziale richiamo all'indipendenza e all'unità, un progetto di autonomia federativa nell'ambito dello stato turco.

La volontà di annientamento di un antichissimo popolo "diverso" devasta il biblico Eden, la terra che le scoperte archeologiche indussero a definire la "culla dell'umanità". Le armi convenzionali e chimiche – come le devastazioni delle grandi dighe – hanno distrutto e inquinato, forse per i secoli futuri, acque, terra, vegetazione, hanno cancellato testimonianze di storia, d'arte, di religione, hanno precluso la possibilità di scoprire tesori ancora sepolti.

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Inno nazionale della Repubblica di Mababad, 1946.

 

O nemico, vive ancora il popolo dei kurdi,

non lo hanno infranto i colpi del tempo.

 

La gioventù kurda, coraggiosa, insorge,

ha tracciato con il sangue una corona viva.

 

Che nessuno osi dire: sono scomparsi i kurdi!

Essi vivono! Vivono! E mai abbasseranno la bandiera.

 

Veniamo dai medi e da Kay Koshrow.

E’ il Kurdistan la nostra religione, il nostro credo.

 

Veniamo dalle bandiere rosse e dalla rivoluzione

guardate il nostro passato, quanto nostro sangue!

 

Che nessuno osi dire: i kurdi sono scomparsi!

Essi vivono! E mai abbasseranno la bandiera.

 

Ecco la gioventù kurda, è pronta,

pronta a offrire la vita all'ultimo sacrificio.

 

'Kurdistan o morte! Kurdistan o morte!

 

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La lingua di mia madre

 

Tu, canto della culla, carezza dell'orecchio

acqua pura di fonte, tappeto dai mille colori

tesoro della nostra terra, scaturito

come la luce dell'alba

 

dai secoli profondi verso il futuro

attraverso tempeste e tenebre

catena d'oro d'eta in eta,

lingua kurda nutrice delle nostre anime.

 

Lingua dei miei padri, secolo dopo secolo

specchio del dolore e dell'allegria

gioiello della bocca, fiamma per il guerriero,

o tu mia lingua, mia poderosa fortezza.

 

Ansito forte della nostra passione

fuoco amato dei nostri focolari

tu sei la freccia e l’arco e il baluardo

tu mio linguaggio, cavaliere invincibile.

 

Melodia dei nostri campi dei nostri giardini

alto richiamo delle vette bianche di neve

ritmo di valli di catene di monti

cantato nei crepacci oscuri delle rocce.

 

Lingua di poeti lingua d'amore

lingua di Baté, di Khatif, di Tayran,

lingua di Siyeh-Pusc, lingua di Aghayok

agiti i cuori e li fai sperare,

 

lingua valorosa, nostra corazza

ti levi contro l’invasione spietata

che volle strapparti dalle nostre labbra,

lingua di mia madre, sentinella eroica.

 

Lingua di mia madre, tu, come una madre

ci hai uniti nel tuo grembo

lingua della speranza

nelle battaglie innumerevoli.

 

Stendardo millenario, combattente non vinto

amore non sconfitto, amore di mia madre

linguaggio del mio popolo kurdo

rosa bella nell'aiuola dei linguaggi.

 

Parola tenera sussurrata all'orecchio

parola più dura dell'acciaio

parola che infrange la spada del tiranno

goccia di caldo sangue, stella bruciante

 

luce del mio cielo che m'insegni la strada

sfidando i tuoni e le bufere

io cammino verso la libertà

o lingua di mia madre, amore di mia madre.

 

Poesia anonima del Kurdistan settentrionale,

pubblicata in «Il Ponte», XIX, nr. 10, ottobre 1963

(traduzione di Kamuran Bedir Khan e Joyce Lussu).

 

2. Il Kurdistan "colonia internazionale"

 

Nei principati kurdi feudatari degli imperi persiano e ottomano regna­vano la cultura, la lingua, le millenarie tradizioni del Kurdistan. La tragedia del popolo kurdo si compie alla fine della prima guerra mondiale. Dalla sconfitta della Sublime Porta nascono 26 stati indipendenti, ma non il Kurdistan. Il Trattato di Sèvres del 1920 pone le basi di uno stato kurdo indipendente, ma il successivo Trattato di Losanna del 1923 lo ignora e divide il paese tra il neonato stato di Turchia, la Siria, protettorato francese, e il nuovo Iraq, inventato a tavolino, sotto mandato britannico. All'importanza geostrategica del Kurdistan e al ben noto spirito di indi­pendcnza del popolo kurdo, motivo di preoccupazioni per le potenze occidentali, si aggiunge, determinante, ed espressamente citata nei reso­conti diplomatici dell'epoca, la scoperta del petrolio nel Kurdistan. Que­sta risorsa non va lasciata nelle mani di uno stato nazionale, ma suddivisa tra diversi paesi sotto tutela, in cui i kurdi saranno minoranza. Il Kurdistan già ottomano rimane così diviso tra Turchia, Iraq, Siria; oltre alla parte che rimane alla Persia. I nuovi confini, che i kurdi non accetteranno mai, provocano una catastrofe anche familiare ed economica; sono divisi pa­scoli, campi, famiglie. Il Kurdistan, come evidenzia il sociologo turco Ismail Besikci, diventa "colonia internazionale" occupato da quattro regimi autoritari, sfruttato, attraverso questi stessi regimi, dalle potenze imperialiste che li dominano. Nel mondo occidentale si fermano gli studi kurdologici e le ricerche di archeologia. Anche la cultura kurda deve morire, insieme a un popolo che si vuole dimenticare. La storia delle tenace resistenza del popolo kurdo è diversa nei quattro paesi in cui il Kurdistan è diviso: Iraq, Iran, Siria e Turchia. Una situazione ancora differente è quella dei kurdi in Armenia.

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Armenia: lo sviluppo della cultura kurda

 

Si sente affermare frequentemente che il territorio del Kurdistan è diviso tra cinque stati; uno di questi sarebbe l'Armenia. Ma si tratta di un errore. La parte più settentrionale della regione oggi considerata Kurdistan comprende una parte dell'antica Armenia ed era popolata da armeni prima dei massacri turchi. L'attuale Armenia, come l'Azerbai­gian, ospita una minoranza kurda, discendente da comunità che si erano insediate in quell'area a partire dal secolo XVIII. Nonostante l’esiguità numerica, la presenza kurda in Armenia ha un ruolo molto importante nella cultura kurda. Agli albori della rivoluzione d'ottobre, il governo sovietico aveva riconosciuto la specificità nazionale della minoranza kurda in Armenia (circa 500.000 persone) e aveva valorizzato la sua cultura con scuole in lingua kurda e accademie teatrali mentre si molti­plicavano studi, ricerche, pubblicazioni. Nel 1923 nasce tra Armenia e Azerbaigian la Regione autonoma kurda di Latchine (dal nome della sua capitale), poi soppressa per la repressione stalinista, che decreta depor­tazioni e purghe anche ai danni di entità nazionali. I kurdi sono dispersi nell'Asia centrale [[[NOTA: Nella seconda guerra mondiale, un battaglione sovietico interamente kurdo riconquistò Minsk occupata dai nazisti]]]. Una comunità nazionale kurda comincia a ricostituirsi alla fine degli anni '80, nell'era di Gorbaciov, e chiede il riconosci­mento dei diritti nazionali. Dopo la fine dell'URSS, i kurdi partecipano alla guerra tra Armenia e Azerbaigian a fianco degli armeni e chiedono venga annesso, all'Armenia il territorio dell'ex Regione autonoma di Latchine. L'Azerbaigian, stato a maggioranza turcofona legato ad Anka- ra, non riconosce alcun diritto alle minoranze e in particolare nega l’identità kurda mentre l'Armenia, che rispetta i diritti  delle minoranze, ha accordato ai kurdi l'autonomia culturale. La libertà di cui gode in Armenia la minoranza kurda è tale da stimolare anche le differenziazioni al suo interno: nel 1998 i deputati di religione yazidi hanno chiesto di formare in parlamento un gruppo distinto da quello kurdo-islamico.

Mentre la cultura kurda era negata, perseguitata o mal tollerata in Turchia, Siria, Iran e Iraq, e volutamente dimenticata nel mondo occi­dentale, sia per le pressioni politico-economiche di questi stati sia per la i volontà di affossare nel silenzio il tradimento del Trattato di Losanna e

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di rimuoverne le destabilizzanti conseguenze, nell'Armenia sovietica essa aveva avuto la possibilità di svilupparsi. Tra gli autori kurdi più significativi c'è Ereb Shamo (1898-1979), nato nei pressi di Kars e vissuto nell'Armenia sovietica. Da pastore "nomade" divenne uno stu­dioso; tra le sue opere più importanti, “Dimdim”, ispirato a un episodio dell'epica kurda e “Il pastore kurdo”, preziosa dal punto di vista etnologi­co, che contiene la trascrizione di antichi canti del folklore.

Anche dopo la soppressione della Regione autonoma, gli studi kurdo­logici proseguirono nelle universià di Erevan, Mosca, Leningrado e Tbilisi. Nell'attuale Armenia continua l'attività del Dipartimento di orientalistica dell'universita di Erevan, e vi sono scuole, radio, pubbli­cazioni in kurdo.

 

Iraq: dal genocidio alle speranze di autonomia

 

In Iraq la lingua kurda non è proibita. La Costituzione irachena provvisoria del 1958, che creava la repubblica dopo l'abbattimento della monarchia, - diceva: «Arabi e kurdi sono associati in questo stato, la Costituzione garantisce i loro diritti nazionali in seno all'entità irache­na», premettendo però che «lo stato iracheno è parte integrante della nazione araba». Nella prima, guerresca bandiera dell'Iraq si intrecciava­no la scimitarra araba e il pugnale kurdo. Ma, nonostante lo status di autonomia fosse previsto dalla Società delle nazioni quando, nel 1925, il Kurdistan meridionale venne annesso all'Iraq, Baghdad non concesse mai l'autononia alla nazione kurda, e anzi il Kurdistan viene tuttora chiamato "il Nord". La mancata concessione dell'autonomia fu la causa, tra il 1961 e il 1975, di uno stato quasi ininterrotto di rivoluzione. Trovandosi in difficoltà per il successo delle forze kurde, il regime si accordò con gli autonomisti e l'11 marzo del 1970 venne promulgata una "Costituzione provvisoria" che riconosce l’autonomia al Kurdistan. Ma,1'attuazione dello statuto di autonomia escluse le aree petrolifere (le province di Kirkuk e Mossul). La guerra riprese, e si concluse nel 1975 con la sconfitta del movimento autonomista: il leader kurdo Mustafa Barzani si era alleato con lo scià di Persia e riteneva di essere garantito dagli Stati Uniti; quando I'Iran, spinto da Washington, trovò un accordo con l'Iraq su una questione di confini, privò i kurdi di armi e munizioni. Per la popolazione kurda, nella sua quasi totalità coinvolta nella rivoluzione,

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la sconfitta fu una tragedia. Migliaia di persone morirono sui valichi innevati tentando di raggiungere l’Iran, che aveva chiuso le frontiere. Centinaia di pesh merga (i combattenti dell'esercito popolare, che "guardano la morte in faccia"), uomini e donne, si suicidarono per non essere fatti prigionieri. La sconfitta kurda fu determinata dalla politica americana, che prima indusse gli autonomisti a dipendere dal­l’Iran e poi, volutamente, ne causò la sconfitta. Una parte consistente della popolazione kurda addebitò la tragedia a Mustafa Barzani, un tempo leggendario comandante delle forze della Repubblica di Maha­bad; l’anno successivo Jalal Talabani, che era stato a capo dell'ala di sinistra del partito di Barzani, fondò una nuova organizzazione, l' “Unio­ne patriottica del Kurdistan” (socialdemocratica) che si contrappone al “Partito democratico” (conservatore) guidato da un figlio di Mustafa, Massud Barzani. La vendetta di Baghdad fu terribile. Tra il 1975 e il 1989 il regime iracheno, inutilmente contrastato dai pesh merga dei due partiti kurdi, spesso in conflitto tra loro, distrugge oltre 4 mila villaggi e una ventina di città e deporta gli abitanti in campi di concentramento vigilati dall'esercito. Le campagne sono devastate dal napalm, le sorgenti chiuse con il cemento, le macerie, i campi, le piantagioni e le foreste vengono disseminate di mine antiuomo. Nel corso di operazioni "contro i pesh merga" gli aerei iracheni sganciano sui civili le micidiali bombe a grappolo o a frammentazione (cluster bombs). Nel 1987 il regime. piani­fica il genocidio e avvia l'operazione Anfal. In poco meno di tre anni Baghdad elimina centinaia di migliaia di persone. La distruzione delle città e lo sterminio si fermano soltanto nel 1990, quando Baghdad concentra le forze nell'invasione del Kuwait. Tra gli strumenti di distru­zione, sono impiegati nel 1988 i bombardamenti chimici, prima sulla città di Halabja e poi, visto il silenzio dell'ONU (le organizzazioni umanitarie accreditate non riescono a ottenere una risoluzione di con­danna) anche sui villaggi del nord-est; dieci anni dopo, da un'indagine medica condotta sui superstiti risulta che il misterioso miscuglio di sostanze chimiche continua a produrre nel tempo terribili effetti, aven­do modificato il DNA dei superstiti [[[NOTA: La ricerca è stata condotta da Christine Gosden, docente di genetica medica all'Università di Liverpool. I risultati sono stati riferiti dalla stessa anche in un articolo sul «Washington Post» (21 marzo 1998). Un documentario sul lavoro di Gosden in Halabja (“La bomba a orologeria di Saddam Hussein”) e stato realizzato da «Dispatches», un programma della televisione britannica “Channel 4”. La RAI ha comprato il filmato per 21 milioni di lire ma ha espresso l'intenzione di non trasmetterlo. Può essere richiesto in videocassetta al “Comitato cittadino di solidarietà con il popolo kurdo” di Siena, presso la locale sede dell'ANPI in via Maccari, 1. Il 13 febbraio 1996 l'Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) aveva redatto un elenco di società europee che avevano venduto all'Iraq il materiale chimico usato per le armi di distruzione di massa, ma l'ONU si e finora rifiutata di rivelare questi dati]]].

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Sbalorditivo è il fatto che simili stragi, di esseri umani, di natura, di testimonianze storiche, artistiche, religiose (antichissime chiese e monasteri cristiani sono distrutti dai bombardamenti del Kurdistan), di risorse economiche (una fiorente agricoltura e allevamento) siano perpetrate non perché i kurdi chiedono uno stato indipendente, ma perché rivendicano soltanto l’autonomia amministrativa, culturale, economica (vorrebbero che una percentuale delle entrate petrolifere venisse destinata allo sviluppo del Kurdistan, lasciato in condizioni di estremo abbandono); un'autonomia predispo­sta dalle potenze occidentali contestualmente all'invenzione dello stato iracheno.

Alla fine della guerra del Golfo, nell'aprile del 1991, l’ONU crea una piccola zona di sicurezza per i kurdi, minacciati da Saddam Hussein e nei mesi successivi i pesh merga liberano una vasta area: i due terzi del Kurdistan iracheno sono ora amministrati dai kurdi. Sotto il controllo di Baghdad rimangono le aree petrolifere di Kirkuk e Mossul, in cui viene ripresa l’arabizzazione, già iniziata negli anni '60 e continuata con successive ondate: i kurdi sono imprigionati, uccisi o espulsi e sostituiti da arabi. Nel 1992 viene liberamente eletto il Parlamento e si forma il governo autonomo del Kurdistan iracheno, che progetta di riunirsi all'Iraq se e quando il paese riuscirà ad avere un governo democratico. Il governo autonomo si ritiene legittimato ad amministrare il Kurdistan "libero" dalle norme sull'autonomia contenute nella Costituzione del 1970. La regione, isolata dal mondo e colpita dal doppio embargo, internazionale sull'Iraq e interno da parte di Baghdad, viene però ab­bandonata a se stessa dalle potenze occidentali dalle quali sperava di essere sostenuta, perché rappresenta il primo esempio di democrazia in quell'area. La Regione autonoma, ben presto sigillata da Ankara con la

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chiusura dell'unico valico di frontiera praticabile che la collegava con il mondo esterno, è insanguinata dagli attentati iracheni, bersagliata dai bombardamenti iraniani e devastata dalle massicce offensive turche. Inoltre, Ankara riesce a dividere le due principali formazioni politico - militari kurde, egemonizzando una di esse, il “Partito democratico” di Massud Barzani; dopo quattro anni di più o meno accentuate ostilità, nel settembre del 1998 Washington impone a entrambe di unirsi per combattere il PKK in lotta contro Ankara.

La Turchia si oppone con grande accanimento all'autonomia dei kurdi iracheni, anche se dal territorio autonomo rimangono escluse le zone petrolifere, e occupa costantemente con le proprie truppe quella regione scatenando frequenti offensive aereo-terrestri anche con l'im­piego di armi chimiche.

 

Iran: la Repubblica di Mahabad e l’oppressione islamica

 

Una parentesi di libertà che dura un anno soltanto si apre, per i kurdi, con la Repubblica di Mahabad, creata con il concorso di intellettuali di tutto il Kurdistan nell'Iran occupato dall'Unione Sovietica nel 1946. La bandiera di Mahabad porta al centro il sole dei medi e una penna, simbolo della cultura; la repubblica si finanzia vendendo opere letterarie a prezzo maggiorato, un prezzo politico; fioriscono musica e teatro, ha grande spazio anche la creativita femminile. Tra i poeti, i più popolari sono Hejar e Hemin, entrambi nati a Mahabad.

L’Iran, mosaico di popoli, non nega 1'esistenza del popolo, kurdo; una delle regioni iraniane continua a chiamarsi Kurdistan (corrisponde a una parte soltanto del Kurdistan orientale, iraniano).

La feroce repressione dei kurdi da parte dello scià (con la famigerata polizia segreta Savak) e poi da parte del regime dei mullah, è dovuta alle rivendicazioni politiche dello storico “Partito democratico del Kurdi­stan-Iran”, nato nel 1945, che chiede democrazia per l'Iran, l'autonomia e l’uso ufficiale della lingua kurda, che è tollerata ma non insegnata nelle scuole. Come in Iraq, che da decenni brutalmente "arabizza" le aree petrolifere del Kurdistan, anche l’Iran ha voluto "persianizzare" la regione petrolifera kurda di Kermanshah. La Repubblica islamica poli­ticamente non tollera le rivendicazioni democratico-autonomiste kurde, tanto da aver fatto assassinare a Vienna nel 1989 il leader storico del

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“Partito democratico”, Ghassemlu, una delle più importanti personaliti politico-culturali della recente storia kurda e nel 1992 a Berlino il suo successore, Sharafkandi. Per le loro rivendicazioni democratiche e il tradizionale laicismo, in patria gli intellettuali e i politici kurdi sono spesso vittime di una feroce repressione. L'Iran tuttavia riconosce, nel­l'ambito della religione unificante, l’esistenza di culture diverse. La lingua kurda non è proibita, ma non è insegnata. E’ ammessa la pubbli­cazione di opere in kurdo, purche si tratti di grandi classici del passato e sono state valorizzate espressioni di religiosita come le musiche e danze dei "darwish del Kurdistan". Il regista Abbas Kiarostami ha incluso in alcuni suoi film, sempre piuttosto malvisti dal potere islamico, ambienti del Kurdistan.

Anche l’Iran si oppone con forza alla prospettiva di uno statuto autonomo per i kurdi in Iraq.

 

Siria: retrovia delle rivoluzioni

 

Una parte del territorio del Kurdistan, non estesa ma ricca di risorse, si trova in Siria. Inoltre, sostanziose comunità kurde si erano insediate ad Aleppo, Hama, Damasco fin dal secolo XI. La celebre fortezza crociata di Krak dei cavalieri sorge su un precedente edificio kurdo, e ancora oggi gli arabi la chiamano Hisn al Akrad, "Fortezza dei kurdi". Alla caduta dell'Impero ottomano la Siria diventa mandato francese; è indipendente dal 1941 (di fatto, dal 1946). Sotto il mandato francese la Siria è terra di rifugio per i kurdi che il nuovo stato turco, sorto nel 1924, nega e massacra. Tra gli esuli illustri, il principe Jeladet Bedir Khan, che insieme ad altri intellettuali da vita a Damasco a un forte movimento per la salvaguardia e la promozione della cultura kurda, come elemento di riscatto nazionale. Tra le pubblicazioni di quegli anni, ha un ruolo notevole la rivista «Hawar» (Il grido). Più tardi, tra gli artisti esuli in Siria dal Kurdistan schiacciato dal kemalismo, approda anche uno dei poeti più amati del Kurdistan, Xegerxwin. Fino al 1962 nella Siria indipendente, nonostante i kurdi non godessero ufficialmente dei diritti culturali dei kurdi e l'istruzione fosse esclusivamente in arabo, era possibile pubblicare opere in kurdo, compresi abbecedari e grammati­che. Dal 1962 anche in Siria scatta l'offensiva antikurda. Vengono privati di status giuridico 120 mila kurdi che il governo ritiene rifugiati

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dalla Turchia per sfuggire alle persecuzioni degli anni '20 e '30. Ancora oggi la loro posizione, o quella dei loro discendenti, è di completa privazione di ogni diritto civile: non possono sposarsi, iscrivere i figli a scuola, stipulare contratti, farsi curare in ospedale, trovare un vero lavoro; in compenso, fanno servizio militare e hanno partecipato a tutte le guerre siriane. Con l’avvento al potere del partito unico Baas ("Rina­scita araba", nazionalsocialista, fratello-nemico dell'omonimo partito unico al potere in Iraq) nel 1963, inizia l’attuazione del progetto "Cin­tura araba": espulsione e dispersione dei kurdi dalla provincia (kurda) di Jazira, diventata "il granaio di Siria", dove vengono scoperti alcuni giacimenti di petrolio, e la sostituzione con coloni arabi armati. Tra le altre misure dell'arabizzazione – licenziamento di pubblici funzionari e dipendenti kurdi, tra i quali gli insegnanti, divieto di acquisto e manu­tenzione di proprietà immobiliari – c'è il divieto (sanzionato in sede penale) di insegnare la lingua kurda anche privatamente e di produrre e diffondere ogni espressione culturale (libri, riviste, concerti, dischi, ecc.). Nel 1976, la minaccia integralista dei "Fratelli musulmani" induce il regime a cercare una riconciliazione con la minoranza kurda, qui come altrove tradizionalmente laica. Con l’avvio del progetto GAP, nei primi anni '80, la Siria, già retrovia della lotta dei pesh merga contro l'Iraq, si vede seriamente minacciata dal monopolio di Ankara sulle acque del­1'Eufrate e reagisce fornendo appoggio alla resistenza del PKK. Dama­sco ha ospitato fino all'ottobre 1998 la dirigenza del PKK e ha "tollera­to" nella valle della Bekaa la presenza delle basi di addestramento della guerriglia e un'accademia politico-militare; l'accademia (chiusa nel 1992) è stata anche uno dei centri di irradiazione della cultura kurda e ha contribuito a risvegliare la coscienza nazionale dei kurdi in Turchia. Nonostante questo, in Siria rimane vietato insegnare la lingua ed espri­mere la cultura kurda.

 

Turchia: il popolo che non esiste

 

La situazione più tragica è in Turchia dove dovrebbero trovarsi, secondo stime recenti, oltre 20 milioni di kurdi, un quarto dell'intera popolazione. E dove soltanto dopo la guerra del Golfo, nel 1991, è stata ammessa ufficialmente l’esistenza "della realtà kurda". Ma la parola "kurdi" è tuttora usata con cautela, e mai da fonti ufficiali, mentre la parola Kurdistan è vietata, sostituita da "Anatolia orientale" o "Est".

Il Kurdistan è stato fin dalle origini dello stato turco terra di repressione feroce, soggetta alle leggi marziali o al governo "di emergenza", che comporta la negazione dei diritti più elementari. Fin dall'inizio, lo stato turco ha voluto sfruttare, della "colonia" Kurdistan, il territorio, le risorse naturali, e il capitale umano, condannando la popolazione alla miseria, all'ignoranza, all'analfabetismo oppure a una totale assimilazio­ne. Tra i primi provvedimenti presi dalla Repubblica turca, c' è il decreto legge del 3 marzo 1924 che vieta scuole, associazioni, pubblicazioni in kurdo (nonché le confraternite e le scuole religiose). Altre disposizioni predispongono la deportazioni dei kurdi. Nel 1928 inizia l’applicazione alle province kurde di uno status speciale, che rende il Kurdistan una colonia priva di diritti: l'amministrazione civile e militare è posta sotto il controllo di un "ispettore generale dell'est", turco, con pieni poteri.

In risposta all'offensiva di Ankara, in tutta la regione scoppiano moti insurrezionali. I più importanti sono la rivolta di Scheik Said nel 1925, la "rivoluzione dell'Ararat" (1930-32), attuata dalla Lega nazionale kurda Hoybun ("Indipendenza") e l’insurrezione popolare di Dersim (1936-38). Le rivolte vengono soffocate nel sangue; si tratta di movimen­ti popolari che dispongono di forze scarsamente armate, mentre la Turchia possiede un vero esercito e fa largo uso dell'aviazione; inoltre intervengono a fianco della Turchia altri stati, come Iran e Francia (mandataria in Siria), che si rivelano determinanti per consentire ad Ankara di schiacciare la disperata resistenza kurda. I leader delle rivolte vengono impiccati a centinaia, a migliaia, gli intellettuali sono chiusi in sacchi e affogati nel lago Van, e centinaia di migliaia di kurdi sopravvis­suti ai massacri delle truppe turche sono costretti a marciare verso occidente in inverno, in base a una legge di deportazione del 1933, da allora rimasta in vigore. Molti, specialmente bambini e anziani, muoiono di stenti lungo il cammino. Una resistenza eroica e una repressione feroce segnano la remota provincia montana di Dersim, i cui abitanti si ribellano alla deportazione. Tre corpi d'armata con artiglieria pesante e tutta l’aviazione turca, che bombarda anche con gas letali, sono impe­gnati contro la popolazione civile. La provincia è vinta dopo quasi tre anni, ma soltanto dopo un lungo assedio, che la priva di cibo e di munizioni. La popolazione però non si arrende. Donne e bambini si gettano nel vorticoso fiume Monzur, migliaia di persone si rifugiano

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nelle grotte e nelle foreste per continuare la resistenza. Moriranno bruciati vivi e asfissiati: i turchi incendiano i boschi e l'interno delle grotte, che poi chiudono con massi di pietra. All'inizio della resistenza, la gente di Dersim aveva scritto alla Società delle nazioni spiegandone i legittimi motivi. E’ forse il primo, quello di Dersim, di una serie di appelli indirizzati dal popolo kurdo alla comunità internazionale dopo il Trattato di Losanna. Il silenzio della Società delle nazioni e dell'ONU, continuato per tutto il secolo (con la sola eccezione della risoluzione ONU nr. 688, che sancisce il diritto di ingerenza umanitaria in Iraq, nell'aprile 1991), fa pensare che il mondo preferisca 1'estinzione di un popolo la cui sopravvivenza pare essere scomoda. La violenza che segue le rivolte kurde – massacri di massa accompagnati da brutalità soprat­tutto su donne e bambini, deportazioni, riduzione in schiavi di degli abitanti, obbligati a costruire strade e caserme militari, distruzione dell'economia rurale, e conseguente miseria – rende muta la gente del Kurdistan per oltre quarant'anni; verra risvegliata dal PKK. Dersim, che in kurdo significa "Porta d'argento", aperta sui monti innevati, da Ankara viene rinominata in turco Tunceli, "Pugno di ferro", per ricor­darne la spietata repressione. Fino al 1965 l’ “est”, pesantemente milita­rizzato e in stato d'assedio, è vietato agli stranieri.

Desiderando far parte della NATO (a cui aderirà nel 1952) e aspiran­do a entrare nella Comunità Europea per allinearsi con le democrazie occidentali, la Turchia, in cui esiste un solo partito che esprime gli interessi della grande borghesia e della casta militare, inaugura nel 1950 il multipartitismo, a patto che si tratti di formazioni moderate e rispet­tose del kemalismo: il Partito socialista operaio-contadino, di cui si profila il successo, viene chiuso a pochi mesi dalla nascita. Nel nuovo clima, conta comunque il consenso ed è inevitabile un allentamento della repressione, sia per quanto riguarda le istanze sociali di tutto a paese (in cui è stato fino ad allora impossibile mantenere in vita un sindacato dei lavoratori) sia nei confronti dell'est, sfruttato e dimentica­to, dove per la prima volta sorgono scuole e ospedali. La relativa democratizzazione della società si traduce ben presto in un fervore di rivendicazioni dei diritti di tutti i lavoratori e, inoltre, dei diritti culturali del popolo kurdo, da parte di alcuni importanti intellettuali. Si cerca di organizzare i lavoratori, si osano pubblicare autori marxisti e perfino opere in kurdo. E pronta la risposta: con un colpo di stato, il 27 maggio 1960 i militari riprendono il potere.

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Il presidente Menderes viene impic­cato nel carcere dell'isola di Imrali (lo stesso in cui sarà detenuto il presidente del PKK, Ocalan).

Nel 1960 viene creato Oyak, il Fondo di mutua assistenza delle forze armate. Dieci anni dopo era la seconda holding del paese, investiva in tutti i settori dell'economia e stipulava contratti importantissimi con le, grandi industrie dell'Occidente; in seguito è diventato la prima forza economica della Turchia; intorno ai grandi acquisti di forniture militari ruotano migliaia di miliardi, e questo spiega la necessità, per i vertici delle forze armate, di continuare ad avere un nemico interno, il popolo kurdo, da combattere all'infinito. La potenza dell'Oyak spiega inoltre l’acquiescenza dei governi democratici, che preferiscono ignorare lo stato di guerra e continuare i lucrosi commerci con Ankara.

La repressione colpisce di nuovo, ferocemente, i kurdi. Tutta la toponomastica originale (i nomi nell'Alta Mesopotamia sono di origine antichissima) viene cambiata con denominazioni in turco, a eccezione (stranamente) di qualche toponimo di più recente origine araba, come Diyarbakir e Hasankeif. I bambini kurdi vengono sequestrati alle fami­glie e rinchiusi in "collegi regionali" dove subiranno un totalitario indottrinamento kemalista (che però non sempre dà i risultati agognati: molti militanti kurdi sono usciti da questi collegi). Dopo un anno e mezzo il governo viene restituito ai civili. Intanto, è stata elaborata una nuova Costituzione che, dovendo tener conto delle aspirazioni europee della Turchia, garantisce ai cittadini le libertà fondamentali, anche se sempre subordinate all'integrità della nazione (e cioè all'esistenza uffi­ciale di una nazione unica, quella turca). Turchi e kurdi hanno così l’opportunità di manifestare pericolose tendenze democratiche e socia­liste: riescono, tra processi e condanne, a organizzarsi liberamente in sindacati, a pubblicare opere proibite (da Brecht a un "criminoso" abbecedario del kurdo) e possono perfino far eleggere in parlamento i rappresentanti di un partito che si chiama “Partito operaio turco”, di cui fanno parte sindacalisti e intellettuali kurdi, che collega la lotta di classe con l'affermazione dei diritti delle minoranze. All'est nel 1967 nasce il Disk, confederazione sindacale rivoluzionaria. Per la borghesia naziona­lista, i militari, e 1'estrema destra, il pericolo comunista non è mai stato tanto grande: kurdo diventa sinonimo di "rosso". Il governo, nello stesso anno, conferma il rigoroso divieto di pubblicare e possedere

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qualunque materiale in lingua kurda, anche se prodotto all'estero e intensifica la repressione nelle province kurde, che soltanto due anni prima erano uscite dall'isolamento e potevano essere visitate dai primi giornalisti. A contrastare le tendenze progressiste, avanzano i fascisti del “Movimento d'azione nazionale”, partito fondato dal colonnello Turkes; i suoi militanti, detti “Lupi grigi” (il cui saluto, a pugno chiuso con due dita alzate, non è il tipico gesto scaramantico, ma indica le orecchie della mitica lupa progenitrice dei turchi) intendono la dialettica politica come eliminazione fisica dell'avversario, sia in patria che all'estero, tra gli esuli e gli immigrati. Alcuni giovani universitari fondano la federazione rivo­luzionaria “Dev genc”. La Turchia precipita nella violenza politica. I “Lupi grigi” e le forze di sicurezza occupano le università "rosse"; nel 1969 e nel 1970 decine di studenti, operai, sindacalisti sono assassinati, e nascono due formazioni armate di sinistra che si battono contro, i miliziani di Turkes. E’ il caos: possono di nuovo intervenire i generali.

Il 12 marzo 1971 i militari rovesciano il governo. La giunta golpista scioglie i partiti operai, le organizzazioni sindacali turche e kurde, le associazioni culturali come DDKO, che da poco avevano iniziato la loro attività nel Kurdistan. E’ sospeso il diritto di sciopero, sono bloccati i salari, si aumentano i prezzi. In alcune province kurde torna lo stato d'assedio. La Costituzione è modificata: si annullano i diritti democratici. Il Dipartimento per le operazioni speciali, cioè la Gladio turca, finanziato dagli USA e addestrato dai consiglieri americani stanziati in Turchia, si occupa non degli inesistenti invasori sovietici (come specificava il suo statuto originario, poi adeguatamente modificato) ma del dissenso inter­no. I famigerati "commando dell'est" compiono ogni sorta di violenza nei villaggi del Kurdistan. Nelle zone rurali di Siirt e Diyarbakir interven­gono perfino i paracadutisti. Migliaia di persone sono processate, tra sindacalisti, aderenti a partiti politici fino ad allora legali, insegnanti, lavoratori accusati di comunismo, editori, intellettuali, perfino chi aveva cariche amministrative nelle città kurde, come il sindaco di Diyarbakir Mehdi Zana; sono mille soltanto gli imputati dei circuli culturali DDKO. Il 70% dei detenuti, sottoposti a condizioni inumane, 6 costituito da contadini kurdi, comprese donne e bambini. Per i reati contro la repub­blica (che sono quasi esclusivamente di opinione) vengono istituiti i tribunali per la sicurezza dello stato (DGM), strutturati come corti marziali, in cui uno dei tre giudici è un militare. Alla fine del 1973 il

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ritorno a un governo civile non migliora la situazione nel paese: mentre continuano i processi-mostro, i commando dell'est seminano il terrore in Kurdistan e i “Lupi grigi” si accaniscono contro "i comunisti" con una nuova ondata di assassinii di sindacalisti e studenti. Il nuovo governo si affretta ad accontentare i militari approvando, nel 1974, una "operazione di pace": l'occupazione di meta isola di Cipro, con conseguente pulizia etnica, divisione degli abitanti turchi e greci con una "linea verde" di confine e proclamazione di una Repubblica turco-cipriota che sara sol­tanto la Turchia a riconoscere. Ankara dimostra di avere molto a cuore le minoranze purché siano turche, come quella cipriota e quella bulgara, mentre in Turchia si applicano con estremo rigore le leggi che impedisco­no l’uso della lingua kurda e viene arrestata, nel 1980, perfino una notissima personalità politica, 1'ex ministro, Seraffettin Elci, perché si era permesso di constatare che «all'est vivono i kurdi».

La Costituzione del 1961, nonostante i forti limiti posti alla libera espressione del pensiero dal baluardo dell'integrità della nazione, aveva fatto intravedere la libertà; di quel varco nell'intransigente kemalismo dei decenni precedenti avevano approfittato scrittori, editori, giornali­sti, politici, sindacalisti. La loro attività veniva ben presto fermata ma intanto circolavano libri e giornali nuovi e diversi, nascevano associa­zioni, centri culturali, partiti: oltre a TIP e a “Dev genc” oltre a Disk e DDKO, era nato nel 1965 il “Partito democratico del Kurdistan di Turchia” (PDK-T), che progettava una federazione turco-kurda e inizia­va ad analizzare il rapporto tra la Turchia e 1'est in chiave di coloniali­smo. Nei processi, i sindacalisti e i membri di DDKO si ostinano a difendersi in kurdo: per la prima volta la diversità delle due lingue – i turchi affermano che il kurdo è un dialetto turco di montagna usato soltanto per ignoranza – assume un rilievo clamoroso. I politici e gli studenti di sinistra, in quegli anni, paragonano la situazione del Viet Nam a quella del Kurdistan, anch'esso occupato da un esercito stranie­ro, in grado di esercitare una forte repressione perché rifornito militarmente e sostenuto economicamente grazie al suo ruolo di partner nella NATO. Chiuse le organizzazioni nate nel fervore libertario degli anni '60 e incarcerati a migliaia dirigenti e simpatizzanti, nel clima di violen­za degli anni '70, uno studente dell'Università di Ankara, Abdullah Ocalan, insieme ad alcuni compagni kurdi e turchi pone le basi del PKK, che nascerà ufficialmente nel 1978. Nello stesso anno, il 1974,

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alcuni intellettuali di sinistra kurdi, guidati da Kemal Burkay, compio­no un estremo tentativo di fondare un partito "moderato" che rifiuta la lotta armata, il “Partito socialista del Kurdistan”. Anche questo esperi­mento avra vita breve; i dirigenti del PSK sono costretti all'esilio. In Svezia, Germania, Francia esponenti del PSK tenteranno, unicamente con gli strumenti della partecipazione democratica, di ottenere ascolto dalla comunità internazionale almeno per quanto riguarda i diritti umani del Kurdistan, ma senza concreti risultati. Gli esuli in Europa svolgono un'opera preziosa nei settori dell'informazione, della cultura, dell'organizzazione sindacale – il Komkar è una federazione molto attiva dei kurdi immigrati – e delle relazioni diplomatiche con i paesi ospitanti, ma non incide sulla situazione in Turchia. Nel paese, la questione kurda arrivera in primo piano con la resistenza armata del PKK, mentre il suo braccio politico, il “Fronte nazionale di liberazione del Kurdistan” (ERNK), dalla meta degli anni '80 farà proseliti tra gli immigrati di tutto il mondo e riuscirà negli anni '90 a volgere sulla questione kurda l’attenzione internazionale.

Nel 1978 i possidenti kurdi, capi di clan anche molto estesi (khal) allarmati dal successo delle idee "separatiste" e soprattutto dalla carica di riformismo sociale ed economico che contengono, in un incontro ad Hakkari si alleano contro il separatismo. Questo episodio, e la costante alleanza con Ankara della maggior parte dei latifondisti, custodi delle tradizioni del profondo Kurdistan, dimostrano che le rivendicazioni kurde non sono nazionalistiche, ma hanno soprattutto una valenza progressista.

Nello stesso anno, il 1978, la legge marziale è estesa a tutto il Kurdi­stan e alle grandi città anatoliche. La forte repressione non fa tacere il dissenso; le istanze di libertà continuano a essere sostenute da un capo all'altro del paese. Intervengono di nuovo i generali. Il terzo colpo di stato, del 12 settembre 1980, avrà esiti sanguinosi per il popolo kurdo e innescherà una resistenza che il potente regime di Ankara tentera inutilmente di soffocare con ogni mezzo. Le conseguenze del golpe del 12 settembre perdurano fino alla fine del XX secolo, coinvolgendo in una repressione spietata anche i turchi democratici che sostengono la causa del popolo kurdo [[[Nota: Cfr. il cap. 1, pp. 9 sgg.]]]

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SIGLE

dei partiti, delle organizzazioni politiche

e delle associazioni kurde e turche citate nel volume

 

ANAP     Anavatan Partisi (Partito della Madrepatria)

ARGK     Artesa Rizgariya Gele Kurdistan (Esercito popolare di liberazione del Kurdistan)

DDKO    Dogu Devrimci Kultur Odaklari (Circoli culturali rivolu­zionari dell'est)

DEP                Demokrat Partisi (Partito democratico)

DEV-GENC Devrimci Genglik Federasyonu (Federazione della gio­ventù rivoluzionaria)

DGM       Devlet Guvenlik Mahkemesi (Tribunale per la sicurezza dello stato)

DISK       Devrimci Isçi Sendikalari Konfederasyonu (Confederazione sindacale dei lavoratori rivoluzionari)

DSP         Demokrat Sosyalist Partisi (Partito socialista democratico)

DYP        Dogru Yol Partisi (Partito della giusta via)

ERNK     Eniya Rizgariya Netewa Kurdistan (Fronte di liberazione nazionale del Kurdistan)

GAP        Guneydogu Anadolu Projesi (Progetto per l'Anatolia su­dorientale)

HADEP  Halk Demokrat Partisi (Partito popolare democratico)

HEP                Helkin Emek Partisi (Partito popolare del lavoro)

IHD         Insan Haklari Dernegi (Associazione per i diritti umani)

IP            Isçi Partisi (Partito dei lavoratori)

KNK       Milli Guvenlik Konseyi (Consiglio per la sicurezza nazio­nale)

MHP       Milliyetci Hareket Partisi (Partito d'azione nazionale)

MIT         Milli Istihbarat Teskilati (Servizi d'informazione nazionale)

MKM      Mezopotamya Kultur Merkeli (Centro culturale della Mesopotamia) [in kurdo, NGM: Navendiya Ganda Meso­potamia]

PDK        Party Demokrati Kurdistan (Partito democratico del Kur­distan - Iraq e Iran)

PDK-T    Parttya Demokrata Kurdestane (Partito democratico del Kurdistan - Turchia)

PKDW    Parlamana Kurdistane Li Derveyi Welat (Parlamento del Kurdistan in esilio)

PKK        Partiya Karkeren Kurdistan (Partito dei lavoratori del Kurdistan)

PSK         Partiya Sosyalista Kurdistan (Partito socialista del Kurdi­stan)

PUK        Patriotic Union of Kurdistan*

TIP          Turkiye Isçi Partisi (Partito dei lavoratori di Turchia)

UPK        Unione patriottica del Kurdistan*

 

* PUK e UPK sono utilizzati entrambi abitualmentq in luogo dell'acrostico originale kurdo (YNK, Yasceti Nistamani Kurdistan).

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Mirella Galletti, I Curdi nella storia, Chieti 1990.

Abdul Rahman Gassemlou, Kurdistan and the Kurds, London 1965.

Jasim Tawkif Mustafa, Kurdi. Il dramma di un popolo e la comunitd internazionale, Pisa 1994.

Jonathan C. Randal, I Curdi, Roma 1998.

Laura Schrader, Kurdistan. Un popolo dimenticato, Torino 1984.

Fabrizio Tonello, Progetto Babilonia, Milano 1993.

Ismet Chérif Vanly, Kurdistan und die Kurde, Gottingen-Wien 1986-88.

Ismet Chérif Vanly, Le Kurdistan irakien entité national, Neuchatel 1970.

 

Repressione, genocidio

 

Amnesty International, La tortura in Iraq, Roma 1985.

Amnesty International, Iraq: bambini vittime innocenti della repressione politica, Roma 1989.

Amnesty International, Rapporti annuali di Iraq, Iran, Siria. Felice Froio F. I Curdi, Milano 1991.

Jasim Tawfik Mustafa, Il diritto di ingerenza umanitaria. Il caso dei kurdi, Pisa 1997.

 

SITI INTERNET

Con la collaborazione di Aldo Canestrari

 

1. Informazione generale

 

Un punto di riferimento fondamentale per l’informazione sulla pre­senza dei kurdi in Web, è il sito «Kurdistan»: http://www.agora.stm.it/politic/kurdistan.htm , costituito da un nutrito elenco di link.

Un'altra fonte assai informata e la pagina web dedicata ai kurdi dal sito Internet del quotidiano «Liberazione»: è curata da Andrea Domenici, ed è raggiungibile (oltre che dall'home page di «Liberazione») diretta­mente su: http://docenti.ing.unipi.it/—d8651/azad.html .

Per ricevere l'ottimo bollettino settimanale in inglese sul tema dei diritti umani, di IMK (International Association for Human Rights of the Kurds), diretto da Abubekir Saydam, l'indirizzo e-mail è: IMK-Bonn@online.de ; oppure: imkkurds@aol.com.

 

2. Associazioni per i diritti umani e di solidarietà

 

a) In italiano

Amnesty International - Italia: http://www.amnesty.it.

Associazione per la pace: http://www.romacivica.net/assopace. AZAD: http://www.azad.it.

b) In francese

France-liberte (presidente Danielle Mitterrand): http://www.france­libertes.fr.

c) In inglese

KHRP Kurdish Human Rights Project (presidente Kerim Yildiz):- http://www.med-tv.be/med.

KCF - The Kurdistan Children's Fund: http://www.kcf.org.uk.

 

3. Informazione quotidiana in inglese

 

AKIN (American Kurdish Information Network): http://www.kurdistan.org

(copiosissima rassegna-stampa quotidiana, ricavata soprattutto da Reuters e da Associated Press, ma contenente moltissime altre fonti, anche kurde).

MED TV: http://www.ib.be/med  (e la pagina della rassegna stampa «Weekly News Review», ferma dal 17 marzo 1999).

Ozgur politika: http://www.humanrights.de/-kurdweb/news/polit_e.html .

Ozgur politika: http://www.ozgurpohtika.org .

Ozgurluk: http://www.ozgurluk.org .

Turkish Daily, News: http://www.TurkishDailyNews.com .

Informazione sul processo Ocalan sul sito «The Ocalan Trial» (racco­mandato da «Ozgür politika»): http://www.asrinhukuk.com/english .

 

4. Siti di organizzazioni e partiti politici kurdi

 

ARGK (Esercito popolare di liberazione del Kurdistan):, http://argk.org/argk .

ERNK: http://burn.ucsd.edu-ats/PKK/ernk.html .

Komala (Kurdistan Organisation of the Communist Party of Iran): http://www.cpiran.org/En/Komala/index.html .,

Kurdistan Regional Government - Kurdish Administration based in

Erbil: http://www-rcf.usc.edu/-'madjdsad/kurdish.html .

Kurdistan Regional Government in Iraq: http://www.krg.org. PDK (Irak): http://www.kdp.pp.se .

PKDW (Parlamento del Kurdistan in esilio): http://www.ariga.com/peacebiz/peacelnk/kurd.html .

PKK, http://burn.ucsd.edu/-ats/PKK/pkk.html .

PSK, http://members.aol.com/PSKkurd. PUK, http://puk.org .

 

5. La religione Yazidi

 

http://www.yazidi.org .

 

6. Varie (in inglese, se non specificato diversamente)

 

Akakurdistan: http://www.akakurdistan.com/kurds/contribute.html .

Center for Kurdish Political Studies: http://www.argk.org  (in kurdo e turco) .

Informations Bulletin Kurdistan: http://members.aol.com/Kurdkomkar .

Links Zum Thema Kurdistan: http://www.berlinet.de/kr/kr_url.htm

(una fonte inesauribile e gigantesca di links a pagine dedicate anche ad aspetti molto specifici della problematica kurda, in tedesco e inglese).

Kurdish Library and Documentation center: http://www.marebalticum.se/kurd/index.htm .

Kurdistan Observer: http://www.mnsi.net/-mergan95/ruzvon.htm

Newroz - Kurdistan Report: http://www.geocities.com/CapitolHill/Lobby/8726/UK  (based magazine for academic and human rights).

Novyj Kurdistan: http://www.aha.ru/-said/index.htm  (in russo e inglese).

Parliament of Kurdistan: http://www.geocities.com/CapitolHill/Congress/1154/ .

Voice of Kurdistan People: http://www.aha.ru/-said/dang.htm  (stazio­ne radio del PUK).

WKI (Washington Kurdish Institute): http://www.clark.net/kurd .